«Ma questa non è un’azienda morta, decotta. È fiorente, ha commesse e fa utili. Quindi deve solo vergognarsi». Nicola Manzi, Uilm Chieti-Pescara, è inviperito. «Non si può cancellare, così, senza ragione, una realtà che ha significato ricchezza e che è stata sempre considerata un’eccellenza mondiale».
EPPURE HONEYWELL HA DECISO di chiudere lo stabilimento di Atessa (Ch), dove vengono sfornati turbo diesel per diversi marchi automobilistici, e di buttar conseguentemente fuori 420 lavoratori, oltre a quelli dell’indotto, altri 60. Dell’altro ieri la drammatica comunicazione: dal prossimo 2 aprile, al termine della procedura di solidarietà, scatterà la mobilità. E, a meno di miracoli, la fabbrica abruzzese sarà smantellata. E le stesse produzioni, in questi mesi clonate, saranno realizzate a Presov, in Slovacchia, dove la multinazionale ha costruito uno stabilimento fotocopia. La Slovacchia, stando ai conteggi effettuati dai sindacati, avrebbe sborsato 20 milioni di euro per far arrivare, incentivandolo, il colosso franco-americano. «Ecco le motivazioni della delocalizzazione – tuona in un documento Rifondazione comunista -: andare ad arraffare soldi pubblici in un altro Stato, dopo aver ricevuto milioni di euro in Italia». Quanti? Cifre enormi. Oltre 4,5 miliardi di lire nel 1999 grazie ai benefici della Legge 64 del 1986; una serie di finanziamenti con la Legge 488, per un ammontare complessivo di circa 4,5 milioni di euro; 1,8 milioni di euro per credito d’imposta, sfruttando la Legge 388; qualcosa come un miliardo di euro di esenzioni fiscali, dei quali ha beneficiato dal 1992 al 2002. «Ora – affermano Marco Fars, segretario regionale, e Carmine Tomeo, responsabile lavoro regionale Prc-Se – ha deciso di andare a spremere più intensamente lavoratori laddove dove minori sono i diritti garantiti. Della serie… prendi i soldi e scappa…».
PER EVITARE LA DIPARTITA di Honeywell dall’Italia il governo ha messo sul piatto altri 50 milioni. Ma non è servito. «Un Governo – sottolineano diversi lavoratori – che in questa circostanza non ha mostrato autorità, né incisività». I dipendenti Honeywell hanno lottato, e resistito per sessanta giorni, con uno sciopero ad oltranza e presidi e picchetti permanenti. Tutto ciò contro una «delocalizzazione infame». Mentre Honeywell era affaccendata a portare avanti il back up dei codici produttivi e a, far presente, in comunicati stampa e lettere, che era «disposta al dialogo», che non c’è stato. E mentre Fiom, Fim e Uilm e istituzioni attendevano un piano di rilancio per il sito di Atessa. «Invece si è colpito al cuore un intero territorio», denuncia la Fiom Cgil. «La speculazione – aggiungono Sinistra italiana e Mdp – ha messo fine alla stabilità di centinaia di famiglie. Ora bisogna individuare una strada percorribile che possa tutelare quantomeno la dignità degli operai». «La notizia, certo ferale, della chiusura, non ha ci ha colto di sorpresa – spiega Davide Di Giulio, che lavora in quest’azienda dal ’99 -. In cuor nostro sapevamo che le intenzioni non erano positive: se vuoi risolvere un problema, lo affronti subito, non lasci trascorrere tempo, inutilmente. È accaduto quello che temevamo. Ora siamo in attesa, – aggiunge -, l’auspicio è che subentri qualcun altro. Perché – spiega- di passaggi ne abbiamo già subiti diversi: all’inizio era Piaggio, poi diventata Mitsubishi, che si è trasformata in Allied Signal fino ad Honeywell Garrett. Certo le condizioni erano diverse».