C’era Wodstock, e sembrava che tanto bastasse. Pace e amore, certo, ma c’era anche un’altra America e un’altra musica. Si deve ad Amir «Questlove» Thompson, batterista dei Roots e complice musicale di Jimmy Fallon, se il leggendario Harlem Cultural Festival, svoltosi al Mount Morris Park (diventato poi il Marcus Garvey Park) e durato sei settimane, è riaffiorato alla memoria dopo essere stato di fatto cancellato (a proposito di cancel culture).

Il vero eroe di Summer of Soul, il film che ha vinto l’Oscar come miglior documentario, come ricordava anche Luca Rea che di archivi se ne intende, è Joe Lauro, archivista filmico dell’Historic Films Archive. È lui che scopre nel 2004 l’esistenza dei nastri e, dopo avere contattato gli aventi diritto, digitalizza e cataloga tutte le registrazioni. L’idea era, appunto, di farne un film e una trasmissione televisiva.

Non che il materiale non fosse stato visto. L’organizzatore del festival, il vulcanico Tony Lawrence, aveva convinto il produttore Hal Tulchin di registrare parti del festival. Delle circa quaranta ore filmate, furono tratti nel 1969 due speciali televisivi da un’ora ciascuno che andarono in onda sulla Cbs e ABb. Il tentativo di Lauro di potere utilizzare i nastri per farne un documentario si scontrano però con numerose difficoltà.

La morte di Tulchin nel 2017 complica ulteriormente una trattativa difficile. L’ingresso in scena di Questlove sblocca le varie complicazioni burocratiche e il film vede infine la luce nel 2021 al Sundance.

Raccontata così, sembra la classica storia a lieto fine, è invece c’è mancato poco che del più clamoroso festival di musica e cultura afroamericana non restasse traccia.

L’IDEA – CENTRALE – di tutta l’operazione filologica messa in piedi da Questlove a partire dai nastri salvati da Lauro, verte sul recupero della memoria. La Summer of Soul sembrava non fosse mai accaduta.

Nel vedere il film, ci si ritrova di fronte a una specie di sortilegio. Un’utopia ritorna in vita. Il montaggio del film interseca le immagini del festival con le tragedie della lotta per i diritti civili. Uno dei frequentatori del festival (Musa Jackson), all’epoca un ragazzino, racconta dello stupore di trovarsi in un parco con migliaia di persone afroamericane. Tutte bellissime, tutte vestite come per la più importante delle occasioni, e senza contare i barbecue improvvisati intorno ai quali si raccoglievano famiglie e appassionati di musica.

Probabilmente il momento più emozionante di tutto il film, che è tutto un groppo in gola – come resistere alla furia gospel di Mahalia Jackson e al passaggio del testimone nei confronti di Mavis Staples? – è quando Davis e Marilyn McCoo dei 5th Dimension rievocano l’emozione di trovarsi di fronte a un mare di volti afroamericani.

ACCUSATI sempre di cantare in maniera bianca, al punto che molti ignoravano che la band fosse «nera», i 5th Dimension si producono in una versione a dir poco commovente del classico medley Aquarius/Let the Sunshine In (The Flesh Failures) (la storia di come siano finiti in Hair è assolutamente incredibile). Quelle voci immaginate come bianche ritrovano la loro purezza gospel e trattenere le lacrime è impossibile.

Fra gli altri momenti assoluti del film, figurano la regale Nina Simone e il pionieristico Sly and the Family Stone, con la sua band nella quale suonavano donne e bianchi. Quando si dice «rivoluzione».

L’unico “difetto” del film è che Summer of Soul dura poco meno di due ore, mentre invece poteva durarne almeno sei e saremmo rimasti lo stesso a bocca aperta, con gli occhi pieni di lacrime, a seguire il magico Ray Barretto (il cuore nuyoricano della città), Gladys Knight & The Pips, i Chambers Brothers e B.B. King, Mongo Santamaria e David Ruffin.