Ieri il primo ministro libanese, Saad Hariri, ha annunciato le dimissioni, ammettendo di essere a un «punto morto» nel tentativo di risolvere la crisi innescata dalle proteste popolari iniziate in tutto il paese quasi due settimane fa.

I manifestanti chiedono l’uscita di scena dell’intera classe dirigente, ritenuta corrotta e responsabile della grave crisi economica in cui versa il paese. Nel corso del discorso di poco più di due minuti, Hariri ha affermato che «è tempo di un grande shock per risolvere la crisi», e ha concluso dicendo che «nessuno è più grande di questo paese». Il capo dello Stato ha preso tempo, riporta il quotidiano libanese Daily Star, e terrà un giro di consultazioni prima di chiedere al governo dimissionario di garantire l’ordinaria amministrazione.

POTREBBE PUNTARE a un rimpasto sempre sotto la guida di Hariri, o tirare fuori un altro nome. Sembra invece improbabile l’ipotesi di un governo tecnico che transiti il paese alle elezioni. Hariri è sostenuto dai Paesi del Golfo e dall’Occidente, dei cui aiuti finanziari il Libano ha un disperato bisogno: il debito pubblico è pari a oltre il 150 per cento del Pil.

L’annuncio delle dimissioni è arrivato poche ore dopo l’assalto ai presidi dei manifestanti a piazza dei Martiri, a Beirut, da parte di un centinaio di sostenitori dei due movimenti sciiti Hezbollah e Amal, contrari a ogni cambiamento nell’esecutivo e determinati a mantenere Hariri al suo posto. Sui social media in molti biasimano esercito e polizia per non aver fermato subito l’intrusione.

Il leader del Partio di Dio, Hassan Nasrallah, sostenuto dall’Iran e una delle figure più potenti del Libano, nonostante non abbia alcun incarico politico, pochi giorni fa aveva messo in guardia dal rischio di caos se le proteste fossero continuate. Né il suo intervento in Tv, con alle spalle la bandiera libanese e non quella del movimento, né il pacchetto di riforme, ambiziose ma ritenute poco realizzabili, presentato da Hariri il 21 ottobre hanno persuaso i manifestanti a sbloccare le strade e a lasciare le piazze del paese.

LE DIMISSIONI DEL GOVERNO, un esecutivo di coalizione che raggruppa tutti i principali partiti del Libano e la cui formazione ha preso nove mesi, erano tra le richieste dei manifestanti che, però, non vogliono un rimpasto, ma puntano a sbarazzarsi dell’intera classe dirigente, incluso il governatore della Banca Centrale. Riad Salamé, in carica dal 1993, è uno dei principali bersagli dei cori della protesta che ormai da giorni ha luogo anche davanti alla sede della Banca centrale.

SALAMÈ IN UN’INTERVISTA alla Cnn lunedì, a suo dire mal interpretata, aveva agitato lo spettro di un imminente «collasso» economico. Ne è seguita una precisazione alla Reuters: il governatore ha spiegato di aver parlato della necessità di «un’immediata soluzione in pochi giorni» per prevenire il collasso. Ha inoltre detto di non aver chiesto alle banche di chiudere, ma gli istituti di credito non riaprono neanche oggi, per l’undicesimo giorno consecutivo. Tuttavia, non tutti i bancomat sono fuori uso e le banche hanno garantito che gli stipendi dei dipendenti pubblici, inclusi quelli delle forze di sicurezza, saranno corrisposti, ma sulla riapertura incombe il timore di una corsa a svuotare i conti correnti.

RESTANO CHIUSE scuole e università, mentre i negozi spesso osservano orario ridotto, ma i prezzi sono aumentati. Dopo le dichiarazioni di Salamè il tasso di cambio sul dollaro è schizzato (poi rientrato) a 1.800 Lire libanesi rispetto a quello fisso di 1.500. Un aumento che si era già registrato in misura minore nelle settimane precedenti alla mobilitazione e che è stato una delle ragioni che ha spinto i libanesi, abituati alla garanzia di un tasso di cambio fisso, a scendere in strada.

Intanto la piazza non smobilita. I gazebo in cui si tengono discussioni e attività, devastati nel pomeriggio, sono stati rimessi a posto e in migliaia sono affluiti a piazza dei Martiri e a Riad el Solh, dove si festeggia questa prima vittoria.

Continuano i blocchi stradali, tra cui quello sul cosiddetto Ring, arteria che attraversa il cuore della città, connettendo le zone est e ovest separate durante la guerra civile. Le dimostrazioni proseguono anche a Tripoli, città del Nord a maggioranza sunnita. Il mantra della protesta è «tutti significa tutti», una richiesta che la classe dirigente non è disposta a soddisfare.