«Soldi! Ancora soldi o vi rimandiamo indietro!» urlano gli uomini armati. Qualcuno protesta, altri sono rassegnati. «Ancora tre ore di marcia» rispondono, contando in fretta il denaro. Lungo il confine turco-bulgaro, di notte, dove la polizia non vede, uomini e donne irachene cercano di entrare clandestinamente in Europa. Il pagamento non è risolutivo e, superato uno stretto passaggio, si scatena l’inferno. Per evitare la violenza dei colpi non si può fare altro che correre più veloce possibile, cercando riparo nella boscaglia, dietro un pietrone o in cima a un albero. Ogni pausa nasconde un pericolo, ogni ritardo un rischio mortale. I migranti corrono come impazziti lungo linee parallele, senza avere neppure il tempo di scambiarsi uno sguardo. Il nemico è invisibile, ma la sua presenza incombente. Anche voltarsi può essere fatale, da dietro arrivano urla, il suono secco delle fucilate, gli schianti dei corpi. Correre è l’unica cosa da fare.

QUANDO la luce del giorno rende la situazione più chiara ma non meno angosciosa, Kamal, che nella prima inquadratura aveva guardato con speranza alla luna, cerca di nutrirsi e di tamponare le ferite, ma è un breve sollievo. La caccia non è finita e deve ricominciare a correre. Il bosco è fitto, ma gli uomini armati sono organizzati, non fanno prigionieri, vogliono uccidere. Il rifugio che Kamal ha scelto, lungo l’ansa del torrente, si rivela meno sicuro del previsto, l’uomo con il volto coperto è ormai troppo vicino: correre non è più possibile e Kamal lo affronta in una lotta disperata. La spunta e può ricominciare a fuggire, risale una scarpata, raggiunge una strada, vede un’automobile che si avvicina. La corsa non è finita.

FOCALIZZATO strettamente sul suo protagonista, Europa trasporta lo spettatore sulla scena minimizzando le mediazioni. Si vede e si sente quello che Kamal vede e sente. Nessuna informazione aggiuntiva ci permette di avvantaggiarci nei suoi confronti e anzi, la condivisione della percezione per tutti i 71 minuti del film fa sì che l’identificazione con i clandestini sia totalizzante. Se Kamal non ha alternative alla corsa a perdifiato, chi lo osserva non può staccare lo sguardo da lui. I primissimi piani con cui il protagonista viene filmato limitano fortemente la visione d’insieme allo spettatore che non può neppure ipotizzare soluzioni diverse da quelle adottate da Kamal. L’unica risposta possibile alla domanda «cosa farei se mi trovassi in quella situazione?» è quella che offre Kamal. Il dispositivo narrativo organizzato dal regista Haider Rashid, che negli ultimi anni ha lavorato con il «360» e la VR, rende la partecipazione dello spettatore ai destini del protagonista un fatto strutturale e non ideologico.

Stiamo dalla parte di Kamal non perché commossi dalla sua condizione o perché convinti assertori dell’inclusione, ma perché non ci sono altre parti dove stare. E l’unica che c’è è decisamente scomoda. Europa mostra su un piano elementare cosa significhi essere posto in una condizione di minorità. Oggettivamente autoritario ma mai ricattatorio, non indugia in sentimentalismi e non si preoccupa di trovare ragioni al comportamento delle milizie di assassini nazionalisti che fanno il tiro a segno con i clandestini: come nel cinema classico americano, il nemico non ha volto, se non quando diventa cadavere.

Un film semplice ed efficacissimo, memore di Walter Hill e immerso nelle tecniche contemporanee dell’audiovisione, un’altra bella scoperta nell’ottima selezione della Quinzaine des Réalisateurs.