Il Fondo monetario internazionale ha rilasciato ieri un comunicato sull’accordo raggiunto con il governo libanese per un fondo di tre miliardi di dollari spalmato in 46 mesi. C’è ancora bisogno di formalizzare – l’approvazione da parte del consiglio del Fmi, il passaggio parlamentare della bozza di legge sul capital control firmato dal presidente Aoun -, ma la strada è segnata.

Oltre a dare un minimo di ossigeno a un Libano piegato da oltre due anni dalla crisi più profonda della sua storia, l’accordo prevede la riforma del sistema bancario. Dove è bufera per il braccio di ferro tra magistratura e banche: il governatore della banca centrale, il cui fratello è stato arrestato, non può lasciare il paese e ha i conti congelati, come molti alti esponenti del settore bancario.

Nell’ottobre 2019, milioni di libanesi esasperati si riversano in strada chiedendo un cambio della classe politica in carica da decenni. Un sistema corrotto multicentrico e confessionale di potere che si tramanda di generazione in generazione da prima della guerra civile (1975-90) legato a territorio/appartenenza religioso-politica.

Dal 2019 i conti bloccati sono stati in pratica prosciugati dalla svalutazione della moneta locale: il dollaro, moneta ufficiale a cui la lira libanese è agganciata a un tasso formale di 1507,05 lire, è oggi a 24/25mila al mercato nero, ma ha raggiunto nei mesi scorsi le 34mila.

La dollarizzazione dell’economia e l’impianto neoliberista di un paese che produce appena il 20% dei bisogni primari e secondari hanno messo in ginocchio la classe media e chi non ha accesso al dollaro.

Prezzi alle stelle, assenza totale di controllo e speculazione senza freni. Il 74% della popolazione vive in povertà e prendendo in considerazione i dati di accesso a sanità, educazione e servizi pubblici la percentuale sale all’82%, il doppio rispetto al 42% del 2019. Questo il report annuale dell’agenzia Onu Escwa sulla «Povertà Multidimensionale» in Libano del settembre 2021.

Situazione drammatica ulteriormente aggravata dalla guerra in Ucraina: il Libano dipende per il 60% da Russia e Ucraina per l’importazione di grano e olio di semi, come Egitto e Tunisia e il Medio Oriente tutto, con percentuali diverse ma comunque alte.

Grano e quindi pane dal forte valore simbolico, come per le proteste scoppiate in Maghreb tra il 2007 e il 2011. Qui oltre il danno la beffa: l’esplosione al porto del 4 agosto 2020 (oltre 200 vittime, 7mila feriti e 300mila sfollati) ha distrutto i più grandi silos di grano del paese situati di fronte al capannone 12 che stoccava le note 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio.

Le riserve, secondo il ministro dell’economia Salim, dovrebbero essere agli sgoccioli. E il prezzo del pane è già aumentato. Come quello del petrolio, a cui è ancorato uno dei problemi strutturali del paese, l’elettricità, prodotta quasi interamente a diesel, oltre che quello dei trasporti, interamente su gomma. La benzina ha superato le 500mila lire al gallone, un costo record per il Libano.

Solo 2-3 ore al giorno di elettricità pubblica, il resto è lasciato ai produttori privati (definiti dai libanesi mafiosi) che hanno generatori disseminati ovunque e che comunque lasciano il paese per 10-12 ore sono senza elettricità.

Questo il contesto in cui avviene il rush finale della corsa alle elezioni, il 15 maggio. Le rinunce di Hariri, dell’attuale premier Mikati, di Salam e Siniora, figure storiche sunnite, lasciano un vuoto di potere. Se Mikati e Siniora non escono di scena e lavorano alle liste, è ancora poco chiaro cosa sarà del Movimento Futuro di Hariri.

Riyadh lavora per rafforzare l’asse 14 Marzo anti-Hezbolah, tornare protagonista in Libano con l’appoggio dell’Eliseo, e ricucire i rapporti diplomatici con Beirut tagliati in seguito al caso Kordahi. Nelle ultime ore della giornata di ieri l’annuncio di Mikati che l’ambasciatore saudita e quello kwaitiano torneranno in Libano nei prossimi giorni.

Nell’orbita saudita gravano oltre ai sunniti, Joumblatt (Pps) e soprattutto «il dottore» Geagea, capo cristiano delle Forze libanesi che raccoglie sempre più consensi tra i delusi da Aoun che oggi più che mai rifiutano l’asse con Hezbollah.

Il fronte di opposizione è comunque diviso in una miriade di partitini. La crisi ucraina avrà un effetto anche sui rapporti Russia-Iran-Bashar al-Assad-Hezbollah. Oggi ci si può solo aggrappare al piccolo spiraglio intravisto nell’accordo con il Fmi.