Una lettiga improvvisata attraversa una fogna a cielo aperto. Due rifugiati Rohingya trasportano un’anziana sdraiata su un telo. Corrono verso il centro medico più vicino facendosi spazio tra macchine e tuc tuc. In certi punti del campo profughi di Kutupalong, raggiungere il punto di primo soccorso significa percorrere 4 km a piedi tra salite e discese.

L’AREA È UN’UNICA E IMMENSA baraccopoli. Una città da 500mila abitanti fatta di tende e costruita su piccoli rilievi che raggiungono i 30 metri. All’interno negozi di cibo, moschee e rivenditori di schede per cellulari si alternano a pompe per estrarre acqua potabile. Nelle valli, le pozze piene di rifiuti divengono parco giochi per i bambini. La foresta e la strada ne delimitano i confini.

 

Una donna Rohingya aspetta all’esterno del punto per la distribuzione di cibo
Una donna Rohingya aspetta all’esterno del punto per la distribuzione di cibo

KUTUPALONG È UNA PRIGIONE a cielo aperto. «I rifugiati non sono autorizzati a uscire dal campo». Faisal, un’attivista per i diritti umani, ci fa strada attraverso le tende. «Vedi che l’area è fatta a gobbe, le valli durante il periodo delle piogge si inondano. In passato alcune famiglie sono morte tentando di recuperare i pochi beni che avevano». Nel punto che ci indica Faisal si è formato un piccolo lago. Alcuni bambini si schizzano l’acqua, mentre sull’ansa una famiglia sta costruendo un’altra tenda. «Il campo esisteva di già, ma l’ultima ondata di rifugiati, quella dell’ottobre 2016, è stata la più forte».

 

Un uomo abbraccia il sacco bianco consegnato dall’UNHCR
Un uomo abbraccia il sacco bianco consegnato dall’UNHCR

Secondo i dati Unhcr, da quella data, sono arrivati in Bangladesh poco più di 600mila persone, ma c’è già chi parla di numeri al ribasso, indicando in un milione il dato più verosimile. «Nei campi manca tutto. Dall’assistenza medica, alle scuole, passando per il cibo e l’acqua potabile: l’emergenza è completa». L’attivista ha sangue Rohingya, il padre ha lasciato la Birmania quando aveva 5 anni, adesso ne ha 40.

ANCHE PIÙ DI 30 ANNI FA, come oggi, la minoranza musulmana in Myanmar era considerata straniera e non riconosciuta ufficialmente dal governo militare di Yangon. «Siamo testimoni di una storia che va avanti dal 1942, anche se è con la legge del 1982 sul divieto per i Rohingya di prendere la cittadinanza che l’escalation di violenze ha subito un crescendo significativo – Farouk che vive in una tenda del campo di Kutupalong, ci mostra la tessera del partito per lo sviluppo del Myanmar, di cui ha fatto parte – Lentamente hanno eliminato le libertà civili, mentre il nazionalismo strisciante ha acquisito una connotazione etnica».

LA MINORANZA MUSULMANA, originaria della regione di Rakhine, è considerata alla stregua di immigrati clandestini. I Rohingya sono accusati dai nazionalisti di essere una conseguenza del colonialismo inglese. Un’etnia importata dal Bengala per sopperire al bisogno di manodopera. «Quello a cui il mondo sta assistendo è un genocidio, proprio come ha riferito la commissione di Kofi Annan»: Farouk si riferisce al report del febbraio 2017, rilasciato dall’alto rappresentante delle Nazioni Unite in Myanmar.

 

Nel campo di Kutupalong una madre Rohingya si riposa con i figli all’ombra degli alberi
Nel campo di Kutupalong una madre Rohingya si riposa con i figli all’ombra degli alberi

UNA LEGGERA PENOMBRA si impossessa della tenda nel campo profughi di Kutupalong. Una donna velata siede sul pavimento di terra battuta. Miriam ha 14 anni ed è una Rohingya. Dal 2 settembre è anche una rifugiata. «Eravamo 40 donne, ci hanno rinchiuse in una stanza – la ragazza, originaria del villaggio di Wet Kyein, è stata catturata durante un rastrellamento – Ci hanno tenute per 5 giorni, lasciandoci solo quando eravamo da buttare via».

Le testimonianze raccolte mostrano come la violenza sessuale sia una pratica utilizzata con costanza dai militari del Myanmar. Assima, 20 anni, è distrutta mentre racconta la sua storia: «Sono stata portata nella foresta e violentata. Avevo un bambino di un anno e tre mesi. Lo hanno gettato vivo in una fossa comune e poi hanno appiccato le fiamme».

 

Due bambini giocano con dello spago sulla sommità di uno dei rilievi del campo profughi di Balukhali
Due bambini giocano con dello spago sulla sommità di uno dei rilievi del campo profughi di Balukhali

 

NELLA MADRASA allestita da Zamman, ex imam di 55 anni, fatta di canne di bambù e teli neri di nylon, molti orfani hanno trovato un luogo sicuro lontano dai terribili ricordi legati alla fuga. «Nei precetti dell’Islam c’è l’obbligo di assistere i più deboli, soprattutto in questa condizione così precaria», ci dice Zamman mentre ci presenta i bambini. Rafiqa ha 8 anni, dei bellissimi lunghi capelli ricci ed è ancora sotto shock per ciò che ha vissuto in Myanmar: «Ho visto mia mamma e mio padre venire uccisi dai soldati. Sono venuta qua con i nonni e vivo con loro».

IL 60% DELLA POPOLAZIONE dei campi Rohingya è minorenne. Il numero di orfani registrati dall’Unhcr a fine ottobre era di 40mila. «L’alta percentuale di bambini, unita all’assenza di reti di sicurezza, sta creando le basi per una catena di sfruttamento – la fonte, vicina alle autorità di Dacca, chiede ripetutamente di rimanere anonima -. Le strade di Cox’s Bazar sono piene di minorenni che fanno elemosina, mentre a Chittagong le donne di servizio possono avere anche 10 anni». Alcune ong hanno captato i rischi per i minorenni Rohingya e si sono operati per creare aree sicure. «Oltre a uno shelter per le donne vittime di abusi, in cui lavorano medici e psicologi, abbiamo costruito delle case giochi per i bambini». Il Dottor Mahdi è il direttore per le operazioni sul campo della Health Management BD Foundation, un’associazione bengalese. «Ogni giorno diamo assistenza a circa 600 minori – continua il medico – Cerchiamo anche di trovare un tetto a coloro che attualmente vivono per strada».

 

Attaccato da un elefante, questo ragazzo Rohingya aspetta la visita su un letto del pronto soccorso dell’ospedale di Ukhia
Attaccato da un elefante, questo ragazzo Rohingya aspetta la visita su un letto del pronto soccorso dell’ospedale di Ukhia

 

E MENTRE LE EPIDEMIE di colera e morbillo sembrano essere state contenute grazie alla campagna di vaccinazione promossa dalle agenzie delle Nazioni unite e dal governo di Dacca, i problemi sanitari continuano ad essere il primo punto dell’emergenza. «Diarree emorragiche, malattie della pelle, tifo, malnutrizione: proseguiamo a lavorare per stabilizzare la situazione – il Dottor Mohammed, nome di fantasia, ci accoglie nell’ufficio del pronto soccorso dell’ospedale di Ukhia – Anche il caso più banale nel campo può diventare un problema serio».

A KUTUPALONG due uomini stanno scavando una fossa su una collina adibita a cimitero. La tomba è piccola. La bambina aveva solo 4 mesi, un pneumotorace l’ha uccisa nella notte. Il padre piange rannicchiato all’ombra di un albero. Le lacrime scendono mentre lo sguardo è vuoto. «Non hanno neanche provato a trasportarla in un punto di pronto soccorso – ci dice Faisal – Il problema è che spesso i rifugiati si trovano di fronte alle emergenze senza sapere cosa fare o a chi rivolgersi». Il tuc tuc lascia il campo. Superati i checkpoint siamo fuori dalla prigione.

Una lettiga di emergenza trasporta un anziano al punto di primo soccorso
Una lettiga di emergenza trasporta un anziano al punto di primo soccorso