«Abiti venduti e resi subito dopo l’acquisto. Accessori progettati per durare soltanto una stagione e destinati a rompersi nel giro di poche settimane per poi finire in discarica o nel Sud del mondo. L’industria della fast fashion genera enormi quantità di rifiuti e inquinamento»: così Greenpeace Italia motiva la sua recente indagine, insieme alla trasmissione Report, sugli acquisti online e relativi resi.

Si tratta di una «filiera logistica schizofrenica» che fa percorrere migliaia di chilometri a un pantalone o a una maglietta e manda al macero in media un terzo del restituito. La possibilità di rispedire la merce gratis incoraggia l’acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il pianeta.

Sono stati acquistati 24 capi d’abbigliamento della cosiddetta fast-fashion sulle piattaforme e-commerce di otto tra le principali aziende del settore: Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, Ovs, Shein e Asos. Un localizzatore Gps nascosto ha tracciato gli spostamenti di tutti i vestiti acquistati per l’esperimento. Mediamente, la distanza percorsa dai prodotti consegnati e resi è stata di 4.502 km. Il tragitto più lungo: 10.297 chilometri. In camion, aereo, furgone o nave.

Greenpeace chiede al governo italiano di: vietare la pubblicità della fast fashion anche sui social; varare un sistema di responsabilità estesa del produttore per garantire l’intero ciclo di vita dei prodotti tessili, anche quando diventeranno rifiuti; imporre alle aziende la trasparenza; imporre alle aziende di mettere in commercio abiti durevoli, riparabili, disegnati per essere riciclabili, prodotti senza sostanze chimiche e ricorrendo a fibre riciclate.