«Come la pietra, così anche l’architettura di Napoli è porosa. Costruzione e azione si permeano in un susseguirsi di cortili, portici e scaloni. Tutto è fatto per custodire la scena in cui costellazioni sempre nuove, sino ad allora imprevedibili, possano accadere. Si scansa il definitivo»: la definizione di Walter Benjamin, la città porosa come il tufo, è diventata una delle più citate prendendo anche accenti consolatori che il testo del 1925 non aveva. La sua fortuna racconta anche come due civiltà molto distanti si siano spesso guardate negli occhi. Del resto Gerardo Marotta, cuore pulsante dell’Istituto italiano per gli Studi filosofici, aveva elaborato una lettura originale dell’Europa proprio a partire da Gli hegeliani di Napoli: «Quel gruppo giovanile (da Spaventa a De Sanctis, ad Antonio Labriola ndr) si era reso consapevole che quella tradizione di pensiero era, durante il Risorgimento, fiorita sul robusto tronco della filosofia classica tedesca la quale, come aveva affermato Heine era “la trasposizione nel pensiero della Rivoluzione francese”».

Ed è ancora il rapporto con la cultura tedesca che offre a Napoli una nuova occasione di riflessione. Lucio Amelio, gallerista e figura chiave della scena artistica, incontra Joseph Beuys nel 1971 a Heidelberg, l’inizio di una lunga collaborazione. A pochi mesi dal terremoto dell’Irpinia del 1980, Beuys rielabora il disastro con Terremoto in Palazzo, una mostra e una serie di performance a cui affianca un manifesto: «I terremoti nei Palazzi sono ancora in corso. Le scosse fisiche nel Mezzogiorno e nella stessa Napoli, con tanti morti a cui dobbiamo sempre pensare se vogliamo determinare trasformazioni radicali, sono tuttavia in rapporto con i continui, indescrivibili crolli nei Palazzi del capitalismo privato dell’Occidente e in quelli del capitalismo di stato dell’Oriente».

Il Goethe Institut di Napoli apre i battenti nel 1961: la prima sede a Palazzo Colonna poi, dal 2013, a Palazzo Sessa dove lo stesso Goethe fu ospite durante il viaggio in Italia. Chiuse le sedi di Torino, Trieste e Genova, quella partenopea verrà fortemente ridimensionata: congedato quasi tutto il personale, in attesa di una sede differente resta un solo responsabile per i progetti avviati con i partner, cancellati i corsi di lingua. L’Istituto italiano di Studi germanici e l’associazione dei Germanisti italiani hanno chiesto di fermare il piano.

Cos’ha rappresentato il Goethe per la città lo racconta Sergio Corrado, docente di Letteratura tedesca dell’università L’Orientale: «Sono nato lo stesso anno in cui è stata inaugurata la sede di Napoli, lì ho imparato il tedesco. Il Goethe era una delle due porte verso la Germania. L’altra era l’Istituto italiano per gli Studi filosofici dove, ad esempio, furono fatte una parte delle traduzioni degli scritti di Benjamin a cura di Giorgio Agamben. Andare al Goethe, nei primissimi anni Ottanta, significava muoversi in una Napoli molto diversa dall’attuale. Il Rione Alto era, allora, una zona ai bordi della città. Il Goethe era il punto di arrivo al termine della discesa dai quartieri collinari: un punto luminoso, bianco».

Negli istituti stranieri si potevano leggere i giornali o i libri in lingua originale: «Per vedere i film tedeschi dovevi aspettare le retrospettive. È stato il cinema a farmi appassionare alla Germania quando, alla fine egli anni Settanta, a Port’Alba la cineteca Altro fece una retrospettiva sui registi di Weimar». Intorno al Goethe, e alle classi di lingua, si sono formate generazioni che hanno poi tenuto vivo il rapporto con la cultura tedesca. «A Napoli il grosso ceppo di studi filosofici era quello di Fulvio Tessitore – prosegue Corrado – che indagava lo storicismo tedesco, quelli che si sono formati con lui all’università Federico II hanno tutti studiato la lingua. Il legame per la mia generazione era forte, soprattutto con Berlino ovest. E poi c’era la musica: al Goethe i concerti erano una sezione importante dell’offerta culturale ma a interessarci era anche la scena punk con icone come Nina Hagen».

Un filo diretto si è stabilito con Berlino e le sue istituzioni di cultura tedesca contemporanea. In collaborazione con il Goethe, l’Orientale ha portato in città le nuove generazioni di scrittori: tra gli altri, Uwe Timm, Lutz Seiler, Marcel Beyer, Ulrich Peltzer, Sibylle Lewitscharoff. Dieci anni fa, circa, un cambiamento radicale: «C’è stata un’esplosione di studenti di tedesco per cercare prospettive di lavoro all’estero o nell’import export. Adesso però l’economia richiede nuove lingue». La rete poi ha cambiato radicalmente l’approccio: i corsi si fanno on line, i film sono sulle piattaforme, i libri scaricabili. Cosa rischiamo di perdere? «Gli istituti di cultura – conclude Corrado – sono luoghi di comunicazione con l’altro ma ti fanno anche incontrare te stesso, cancellarli è una grave riduzione della sfera pubblica».