«Compivo mille gesti e movimenti che non posso descrivere, mentre pensavo che tutti i miei compagni erano annegati, che nessun altro si era salvato all’infuori di me, e infatti non li rividi mai più: né vidi altra traccia di loro all’infuori di tre cappelli, un berretto e due scarpe scompagnate».

Approdato a un’isola deserta dopo il naufragio della nave sulla quale viaggiava verso la Guinea per rifornirsi di schiavi, Robinson Crusoe prende atto della sua solitudine attraverso un breve elenco di oggetti che potrebbero figurare in uno dei modesti «musei» (per esempio quello lampedusano del collettivo Askavusa, o quello creato dal poeta Mohsen Lihidheb a Zarzis, in Tunisia) dove sono esposti quasi con devozione bussole, fotografie, taccuini, copie del Corano, biberon, schede telefoniche, zaini, bambole, abiti e scarpe, innumerevoli scarpe, una lunga scia di piccole cose che segna le rotte dei migranti nel Mediterraneo e va a infrangersi sulle nostre spiagge.

RESIDUI ETEROGENEI, a volte smarriti o gettati via, ma anche segni ultimi di esistenze radicalmente cancellate (alla teiera di latta, alla collana di perline riaffiorate e spinte a riva non corrispondono né un corpo né un nome), perché il fondo del mare è prima di tutto un immenso cimitero che per millenni ha inghiottito milioni di corpi.

Un cimitero vuoto, però, perché solo nei versi cantati da Ariel in La tempesta le ossa dell’annegato si fanno coralli e gli occhi si trasformano in perle, mentre «Nulla di lui muore, ma subisce soltanto/ Mutamento marino/ In qualche cosa di prezioso e raro», per accedere alla stessa quasi-immortalità dei relitti, delle rovine e dei tesori depositati sul fondo e corrosi più dal tempo che dall’acqua: per quanto riguarda la carne, infatti, il mare «non ammette alcuna traccia, non preserva memorie», consuma e dissolve.

Anatole Le Braz, che nel diciannovesimo secolo raccolse e trascrisse le leggende bretoni dalla voce di pescatori e contadini, riferisce nel suo La légende de la mort chez les Bretons Armoricains (La leggenda della morte, Sellerio 2003): «Quando si fa notare alle donne dell’Île-de Sein quanto il loro cimitero sia angusto, esse rispondono che il ’cimitero degli uomini’ non è lì, ma tra l’isola e la Punta di Raz». Sanno bene, però, che ad abitarlo non sono i corpi perduti di chi si guadagna duramente la vita in mare e troppo spesso deve arrendersi alla tempesta, con le braccia spalancate e un grido simile «al bramito di un toro», come Yann, protagonista del magnifico Pescatore d’Islanda di Pierre Loti (Nutrimenti 2010).

In acqua, la spoliazione comincia dopo poche ore: «… se ne vanno prima le labbra, gli occhi e le dita, essendo facilmente afferrabili da parte di creature con bocche e chele piccole. I merluzzi sono particolarmente voraci, e appena l’acqua ammorbidirà la carne, anche il resto verrà strappato in fretta», spiega James Hamilton-Paterson in Sette decimi (Guanda 1994). Ad abitare i cimiteri marini sono dunque gli spettri malinconici e imploranti degli annegati che chiedono di essere degnamente sepolti, ma si mostrano anche minacciosi o vendicativi, inclini a trascinare con sé altre vite e a reclamare gli oggetti di loro proprietà.

È SEMPRE Le Braz a raccontare che dopo il naufragio di una nave spagnola o brasiliana in vista dell’Île-de-Sein, per giorni il mare fu ricoperto di rottami che la gente del posto raccolse e si spartì. A una famiglia toccò uno specchio particolarmente bello, intatto, che venne appeso nella stanza riservata agli ospiti di riguardo, e fu appunto un’ospite, una ragazza di città, a scorgervi non il proprio riflesso, ma un volto femminile «smorto, con degli occhi bianchi, degli occhi senza pupille, e lunghi capelli bagnati che sgocciolavano». Lo specchio fu restituito il giorno stesso al mare, e non riaffiorò più.

«Se, come narrasi nelle leggende note in ogni parte del mondo, le vittime del mare, gli uccisi, i naufraghi rimasti senza onore di sepoltura, si aggirano sulle spiagge desolate, fra gli scogli e sull’acqua, nell’oscurità della notte, nelle ore burrascose: innumerevoli debbono essere le loro schiere dolenti, quando, usciti dagli abissi, ripetono il triste metro dei loro lamenti, imprecano all’avverso destino o implorano la pietà dei vivi, anelando al riposo nella tomba, alla pace dopo il travaglioso viaggio», scrive alla fine dell’Ottocento Maria Savi-Lopez, autrice infaticabile e dimenticata, nel suo ricchissimo Leggende del mare (Sellerio, 1995) dedicato agli «illustri amici Angelo De Gubernatis e Giuseppe Pitré», pionieri della ricerca folclorica in Italia.

Dalla Scozia alla Germania, dalla Norvegia all’Irlanda al Portogallo, Savi-Lopez evoca i fantasmi degli annegati che si arrampicano sugli alberi delle navi o si aggrappano al fasciame delle barche, racconta che i corpi giacciono sul fondo conservandosi intatti «finché giunga l’ora in cui la morte avrebbe dovuto coglierli in modo naturale», ricorda che le loro anime sono la preda favorita degli «uomini d’acqua».

UNA LEGGENDA, questa, registrata da Thomas Crofton Croker, folclorista irlandese amico dei fratelli Grimm, e comicamente narrata da William Butler Yeats nelle sue celebri Fiabe irlandesi (Einaudi 1981), in cui un pescatore si fa amico di un «sireno» beone, lo stordisce con una poderosa acquavite e può infine liberare le anime imprigionate nei cesti per aragoste.

Dagli abissi più profondi, narra Le Braz, salgono gli annegati che camminano in fila indiana, bisbigliando tra loro parole incomprensibili, per fare rifornimento d’acqua dolce e poi tornare da dove sono venuti, in attesa che qualcuno affoghi in quello stesso punto: solo così, infatti, saranno finalmente liberi («I ’vecchi’ si sono fatti sostituire», mormorano i marinai alla notizia di un nuovo naufragio).

Intanto, nelle notti di tempesta, si chiamano fra loro lungo le coste con lunghe grida lamentose, vagano su navi spettrali che sfiorano appena le onde (a pilotarle è sempre colui che è annegato per ultimo), intralciano con i capelli a fior d’acqua i remi della scialuppe, si affacciano tra la schiuma per chiedere ai naviganti messe in suffragio. Non accade mai, però, che si incontrino con altri fantasmi, quelli incappucciati e vestiti a lutto di mogli, madri, fidanzate che hanno trascorso in attesa una vita solitaria e solo adesso, da morte, sono libere di affollare il ponte dei battelli e di guardarsi intorno «in cerca dei loro congiunti o innamorati annegati in Islanda, per spingerli a riva e dar loro sepoltura in terra benedetta».

IN UN PAESE COSTIERO dove «lunga è la lista di coloro che l’oceano non rende mai più», è d’uso, dice ancora Le Braz, celebrare per l’annegato un funerale in piena regola chiamato proella e concluso intorno a una tomba collettiva destinata ai corpi assenti. Un gesto che stempera la cupezza di una fabulazione antica, rinnovata ancora oggi da corpi minuscoli arenati sulla battigia (Aylan, Yusuf, Artin, Yamila: bambini, bambine), pronti a diventare immagini fantasmatiche rimandate all’infinito da uno schermo all’altro, ma soprattutto a ricordarci che altri, molti altri come loro sono «esclusi dalla vista in un modo più definitivo del semplice seppellimento nella terra», e rivendicano il diritto a essere ricordati e pianti.

La tradizione popolare, tuttavia, da sempre affianca alle storie più fosche anche il loro opposto: sogni, illusioni, avventure, meraviglie. Ed ecco gli annegati che non lo sono, perché respirano magicamente sott’acqua grazie a sirene o principesse o streghe degli abissi, innamorate al primo sguardo; ecco i giovani pescatori che si immergono a profondità mai raggiunte, come l’adolescente Colapesce, fino a trasmutarsi in creature marine e sfuggire ai capricci imperiosi dei re; ecco i marinai colati a picco che si ritrovano in un sorprendente mondo segreto, quasi un «doppio» di quello in superficie, ma perfetto, ricco, sereno.

Luoghi dove l’unica cosa cui bisogna rinunciare è la nostalgia, perché, dal fondo del mare non si torna… O forse sì? Tra le Fiabe italiane raccolte e rinarrate da Italo Calvino (Einaudi 1956) ce n’è una che parla proprio di un ritorno trionfale dagli abissi: in L’uomo verde d’alghe, Baciccin Tribordo viene gettato in acque profonde dal perfido capitano di una nave, ma cammina per giorni e giorni sul fondale e riemerge «coperto d’alghe verdi dalla testa ai piedi, con pesci e granchiolini che gli uscivano dalle tasche e dagli strappi del vestito» e sposa all’istante la figlia del re. A volte, anche il mare deve arrendersi e rinunciare a corpi che sembrava gli appartenessero.