Lo scorso luglio Jafar Panahi è stato condannato in Iran a sei anni di carcere. Non era la prima volta che il regista una delle voci di dissenso più ferme in Iran subiva una condanna; già nel 2010, ai tempi dell’Onda verde, il movimento che chiedeva riforme nella vita civile e politica iraniana, Panahi che lo sosteneva si era visto imporre il divieto di prendere la parola pubblicamente, di girare film e di uscire dal Paese per vent’anni – una sorta di confino nell’invisibilità e nell’oblio (è una delle armi predilette delle dittature) che dimostra quanto spaventino sempre e ovunque le teste pensanti.

DA ALLORA era rimasto in una sorta di «libertà vigilata» con una pena che poteva scattare ogni momento, e così è stato in coincidenza con il nuovo dissenso critico verso l’oscurantismo del governo iraniano – prima di lui erano finiti in prigione il suo amico regista Mohammad Rasoulof e moltissimi altri attivisti, artisti, pensatori, quando Panahi si è presentato firmando una lettera che chiedeva la liberazione di Rasoulof è stato arrestato.

Qualche mese dopo nelle mani della polizia è morta una ragazza, Mahsa Amini, l’avevano fermata perché non indossava il velo correttamente. Quello che è accaduto, e che continua a accadere lo sappiamo, le proteste delle donne, la violenza della repressione, le altre ragazze uccise da un regime che rifiuta ogni confronto.

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No Bears – Gli orsi non esistono parla anche di questo nel senso che come ogni film di Panahi scompone e ricompone la realtà, l’umano, i conflitti, i paradossi; l’obiettivo è svelare quanto si cela dietro abitudini e sguardi pigri opponendo il dubbio alla certezza, il pensiero consapevole alla manipolazione. Alla scorsa Mostra di Venezia ha vinto il Premio della giuria, ma dalla prima proiezione era il Leone d’oro perché è un film magnifico, appassionante, divertente, di alta intensità che evitando compiaciuti accademismi (oggi tanto graditi) dichiara una scommessa: quella di chi senza vittimismi nelle immagini e tra le geometrie delle parole inventa un proprio spazio e prova a abitarlo.

C’È QUALCOSA di commuovente in questa sua passione – che lo ha portato a trasgredire negli anni, e per fortuna, anche il divieto: un’ostinazione morale, politica che è un gesto di resistenza, una fiducia, quasi una fede. Il cinema è più forte della religione nella sua verità perché non oscura e non chiede adesione cieca, al contrario testimonia e insieme rivela, ponendo costantemente delle questioni la propria materia: al Corano il nuovo personaggio di Panahi – che è anche se stesso – preferisce la potenza della macchina da presa per registrare un giuramento che solo in questo modo non potrà mai essere negato.

Cosa racconta Gli orsi non esistono? C’è un regista (è lo stesso Panahi) che sta girando un film «a distanza», dall’Iran dirige la troupe e gli attori in Turchia e per essergli più vicino si è installato in piccolo villaggio sul confine dove la rete funziona malissimo, il tempo sembra essersi fermato, ma la gentilezza della madre del suo padrone di casa compensa le frustrazioni.

Autobiografia dunque? Le somiglianze col vissuto di Panahi sono molte ma la libertà di narrare richiede distanza: e allora? Nell’incastro di messinscena e realtà che fonda i suoi film ciascuno è una persona perché prima diventa un personaggio, e ogni storia racchiude un’esistenza, impone le domande che sorgono dal vissuto e dalla sua narrazione – perché il cinema può anche tradire o essere tradito dal flusso della vita «reale».

La storia del film che il regista prepara è quella di una coppia iraniana fuggita in Turchia, da lì cercano di arrivare in Europa ma non hanno i documenti e sono costretti a percorrere la strada dell’illegalità. Anche Panahi dovrebbe passare il confine clandestinamente sollecitato dal suo aiuto regista che ha bisogno di lui sul set. Quando però pone un piede sull’invisibile linea che separa i due paesi si blocca, arretra e torna indietro. Eppure sembrerebbe facile attraversarla, se non ci fossero gli interessi di trafficanti e altre economie criminali ma non è quello a spaventarlo: la sua scelta è quella di rimanere, di non fuggire, di affermare una parola pure se destinata alla sconfitta.

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UN GIORNO il villaggio irrompe nel «quadro» del suo piccolo universo isolato: lo percepivano come un straniero, lo guardavano con sospetto, chissà cosa fa lì, perché ci è arrivato dalla città. Ora lo accusano, vogliono una fotografia che avrebbe scattato a due ragazzi per una vicenda legata a una faida famigliare, lei promessa alla nascita dalla tradizione a un ragazzo, ama invece il giovane studente tornato al villaggio perché espulso dall’università per avere partecipato a delle manifestazioni.

Il regista però non l’ha mai fatta quella fotografia, è pronto a consegnare al consesso di soli uomini (ovviamente) l’intera memoria della macchina fotografica. Non gli credono e intorno a quell’«immagine mancante» inizia un processo (senza tribunali) che coinvolge istituzioni, famiglie, religione, tradizione, e naturalmente il regista, il cui unico fondamento sono le paure che concedono agli altri un «enorme potere» – come quella degli orsi che non esistono.

Le autorità producono testimoni, un bambino di nove anni le cui parole però non avrebbero alcun valore in tribunale e neppure con la sharia: «Però volete usarle contro di me» replica Panahi costretto per la pacificazione a un «giuramento» la cui verità non conta, è solo questione di apparenza. Quel luogo il cui solo orizzonte si apre sulle luci oltre la frontiera diventa un teatro che riflette la violenza paradossale delle autorità in Iran oggi, a cominciare dalla volontà di cercare una «prova» che non esiste, un’immagine che non è mai stata creata ma di cui c’è bisogno per accontentare – contro ogni desiderio delle persone interessate – il volere comune.

Panahi non si limita alla registrazione dei fatti – non è quello che lo ha mai interessato in nessun film; il suo protagonismo che solleva la dimensione politica diviene in questo nuovo racconto morale un modo per interrogarsi sul proprio dispositivo stavolta ancora più radicale che in film come Closed Curtain ( 2013) o l’Orso d’oro a Berlino Taxi Tehran (2015). A partire dal confronto con la società – e col proprio vissuto – sollecita una serie di questioni che riguardano il suo ruolo di artista (e il ruolo dell’artista in genere), la sua scelta di rimanere nel Paese, quello delle sue immagini che non possono mai essere distratte o casuali.

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INTANTO sul set le vite dei due personaggi che sono state l’ispirazione si rivoltano alla trama: si sentono traditi dal regista, lei gli grida che anni di prigione, torture, disperazione sono diventati falsi nella sua ricostruzione. E cosa sarà di quei giovani del villaggio che per vivere il loro amore sono disposti a morire pur di andare via, di superare quella frontiera nella quale lui è invece rimasto? Si potrà trovare un modo per dire la loro storia, il futuro che gli è negato? Lui ci prova, si mette in gioco tra gli inciampi e le battaglie che deve sostenere lo sguardo di un cinema che non si arrende.