La nuova vittoria di Viktor Orbán alle elezioni del 3 aprile scorso fa prevedere facilmente un mantenimento a lungo termine della conflittualità con Bruxelles. Aspetto quest’ultimo che è stato uno dei principali tratti distintivi del sistema di potere creato dal premier ungherese in questi dodici anni di governo del Fidesz.

Una conflittualità alimentata dalle numerose iniziative intraprese da Budapest, in termini di leggi, disposizioni e decisioni attuate in ambito politico, che Bruxelles considera lesive dello Stato di diritto e comunque non coincidenti con i valori europei di rispetto della democrazia. 

Ora questa conflittualità si acuisce a causa della posizione assunta dal governo ungherese di fronte al conflitto in atto in Ucraina, della sua indisponibilità a cooperare in modo concreto per aiutare Kiev con l’adesione a sanzioni contro la Russia e a iniziative basate sull’invio di armi nel paese in guerra. “Una guerra che non è nostra” ha dichiarato più volte recentemente Orbán che in campagna elettorale ha fatto leva sulla paura dei suoi connazionali che gli eventi bellici sconfinino, e le ha alimentate. Una mossa concepita per presentarsi come “uomo di pace”, l’unico in Ungheria in grado di garantire al suo paese sicurezza e neutralità. Sembra che questo abbia contribuito in modo rilevante alla sua quarta affermazione elettorale consecutiva. 

Tale posizione ha determinato una divergenza rispetto agli altri tre membri del Gruppo di Visegrád (V4) che si sono invece schierati più apertamente contro Mosca, e non è certo gradita all’Ue e alla Nato, istituzioni di cui Budapest fa parte. In più, di recente, Orbán ha affermato che l’Ungheria è pronta a pagare il gas russo in rubli, coerentemente con la richiesta del Cremlino. Cosa che, secondo il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, corrisponde a una “soluzione tecnica”. È noto che l’Ungheria ha dei contratti con Mosca in ambito energetico; per la precisione, l’85% del gas per il riscaldamento e il 64% del petrolio che riceve vengono dalla Russia. Orbán ha ribadito il fatto di non accettare il principio di estendere le sanzioni antirusse al petrolio e al gas ma ha anche proposto alla Francia e alla Germania di dare inizio a un tavolo negoziale a Budapest con le autorità russe.

In generale, con le decisioni prese nel frangente della guerra, l’Ungheria appare in un certo qual modo isolata nel contesto europeo, il premier sostiene di capire le ragioni di Kiev ma sottolinea la necessità che venga compreso anche il suo impegno a difendere gli interessi ungheresi e la scelta di tenersi lontano dal conflitto.

Intanto è noto che è pronta la lettera della Commissione europea per la messa in mora dell’Ungheria. Si tratta di una procedura mirata a sospendere il versamento dei fondi del piano di rilancio. Il ricorso alla medesima viene motivato col riferimento alla mancanza di trasparenza nei mercati pubblici, alla corruzione e ai conflitti di interessi ed è consentito dall’ormai ufficiale principio di condizionalità che rende possibile l’accesso ai fondi Ue a patto che venga rispettato lo Stato di diritto. Va detto che l’Ungheria è già nel mirino dell’Articolo 7, proprio come la Polonia, ma Varsavia è stata al momento esclusa dalla procedura prima menzionata, in virtù del suo impegno a favore dei rifugiati ucraini.

Ora sarà interessante verificare come l’abituale equilibrismo di Orbán riuscirà a gestire la situazione delicata in cui si trova il suo paese. L’Ungheria ha sempre bisogno dei fondi Ue, soprattutto date le difficoltà economiche che oggi deve affrontare; difficoltà dovute principalmente all’aumento dei prezzi e del debito pubblico. 

Probabilmente sul fronte interno avrà vita più facile, non bisogna infatti dimenticare la sua capacità di distogliere l’attenzione pubblica dai problemi reali con svariati argomenti, tra cui la difesa della Patria sempre minacciata da pericoli esterni.

Si attendono sviluppi.