A due giorni dal voto di venerdì dei quasi duecento paesi rappresentati a Glasgow, i due maggiori inquinatori del mondo, Usa e Cina, hanno firmato un comunicato congiunto per assicurare che vanno «nella stessa direzione». L’accordo riguarda il metano, le foreste, il trasferimento di tecnologie, John Kerry non ha precisato se riguarda anche il carbone, ma per il rappresentante Usa è «un nuovo passo», una «roadmap» per il futuro, per il cinese Xie Zenhua bisogna «affrontare l’emergenza che mette a rischio la nostra stessa esistenza».

IERI LA PRESIDENZA BRITANNICA ha pubblicato l’ultima bozza, che invita a «rivedere e rafforzare i piani nazionali in modo da renderli compatibili con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi». Il testo impegna per «riduzioni rapide, forti e sostenute delle emissioni mondiali di gas a effetto serra». Ma poi precisa: una «riduzione di emissioni di Co2 del 45% per il 2030 rispetto al 2010» e la «neutralità carbone verso metà secolo». Una riduzione molto al di sotto di quella approvata dalla Ue, del 55%.

NELLA BOZZA C’È UN riferimento a «accelerare l’uscita dal carbone» e dai «sussidi per carburanti fossili»: è la prima volta che l’Onu menziona il carbone, ma in realtà nel testo non c’è riferimento a nessuna data precisa né a obiettivi quantitativi. Il testo accenna a «tagliare il metano», alla «riforestazione». Nella bozza viene anche evocato il delicato problema delle «perdite e danni» subiti dai paesi poveri e vulnerabili, ma si limita poi a un’incitazione per i ricchi a «raddoppiare almeno le provvigioni collettive per finanziare l’adattamento climatico», per i danni causati da episodi di tempo estremo e per il rialzo del livello dei mari. Vale a dire aumentare considerevolmente l’impegno dei 100 miliardi l’anno per i paesi in via di sviluppo, evocato 12 anni fa e finora non rispettato, l’obiettivo temporale è stato spostato al 2023 e, se ci saranno più soldi, non arriveranno prima del 2025. C’è anche la proposta di fare un controllo annuale – e non più ogni 5 anni, come adesso – con un primo appuntamento per fare il punto nel 2023.

LA BOZZA È DEBOLE. «Non è un piano per risolvere la crisi climatica» secondo Greenpeace. E molto probabilmente questo testo sarà limato a dovere prima di essere eventualmente approvato: ci sono opposizioni sull’uscita dal carbone, sulla presentazione di nuovi piani il prossimo anno, sulla revisione al rialzo (c’è già il «no» di Russia e Arabia saudita), c’è anche la protesta dei «vulnerabili». A due giorni dalla fine della Cop26, nulla è sicuro. Il primo ministro britannico, Boris Johnson, si felicita sui «progressi significativi» fatti da «tutti i paesi», ma ammette: «c’è ancora della strada da fare». Ieri, ha incontrato il principe dell’Arabia saudita, uno dei paesi più reticenti. Per il laburista Ed Milibar, ministro ombra, il «summit non è sulla strada del successo, molto lontano da quello che ci vorrebbe per il 2030». Per Milibar, «è tempo che il governo faccia fronte alla verità, smetta il greenwashing e metta la pressione su tutte le parti per mantenere in vita l’obiettivo 1,5 gradi».

GRETA THUNBERG E ALTRI 13 giovani attivisti hanno lasciato davanti alla porta di Antonio Guterres, segretario generale Onu, una petizione: «vi chiediamo rispettosamente», dicono, di dichiarare «l’emergenza climatica mondiale», come è stato fatto per il Covid .
La bozza di Glasgow incoraggia a rivedere al rialzo i tagli al Co2. Ma i calcoli sui piani nazionali presentati, le Nationally Determined Contributions, dicono al contrario che le emissioni di Co2 aumenteranno del 13,7% nel 2030 rispetto al 2020, mentre dovrebbero diminuire del 45% per rispettare l’obiettivo di 1,5 gradi. Per il Climate Action Tracker, stando alle promesse, il riscaldamento sarà di 2,4 gradi. Numerosi paesi, inoltre, imbrogliano: dichiarano emissioni di Co2 inferiori alla realtà del 20-30% rispetto alle stime degli scienziati, cioè c’è uno scarto tra 8,5 e 13,3 miliardi di tonnellate emesse . La bozza accenna alla questione delicata delle «perdite e danni».

Ma è estremamente prudente, perché i paesi ricchi escludono che venga istituito un obbligo giuridico, che potrebbe aprire a una valanga di denunce e richieste di indennizzo. I paesi vulnerabili sono molto combattivi e minacciano di far fallire il vertice. La questione delle «perdite e danni», afferma il presidente della Cop, Alok Sharma, «è da sempre un argomento che polarizza». Però Sharma nota che «la musica sta cambiando». Per il momento c’è un «riconoscimento pratico che un’azione è necessaria». Usa e Ue hanno riconosciuto che sono necessari maggiori finanziamenti. C’è la proposta di rafforzare il Santiago Network, ma già due anni fa era stata promessa assistenza tecnica, rimasta senza effetto (la Scozia, con una goccia d’acqua, ha aperto una breccia e stanziato un milione di euro di «compensazioni»).

COSTA RICA E DANIMARCA hanno lanciato l’alleanza Boga (Beyond Oil and Gas Alliance), che chiede di chiudere il rubinetto di petrolio e gas, a una data precisa, invece di andare lentamente, con limitazioni progressive. È un modo per fare pressione sulla High Ambition Coalition, dove ci sono anche Usa e Ue. Ma a Glasgow la più grossa delegazione presente non è quella di uno stato, ma la lobby dei carburanti.