La raffica di licenziamenti della Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) ha avuto una eco nazionale, con la manifestazione regionale di lunedì 19 luglio e quella nazionale di sabato 24 luglio indetta dal Collettivo di fabbrica e sostenuta da varie sigle politiche e sindacali.

Molto è stato detto a proposito degli eventi, dalla modalità assai criticata – in effetti rivoltante – della comunicazione del licenziamento dei 422 lavoratori, all’atteggiamento sprezzante anche nei confronti del governo da parte dell’azienda.

Ai fini del tema che trattiamo su queste pagine va rilevata l’impronta decisamente finanziaria dell’intera operazione.

Gkn è una multinazionale britannica metalmeccanica; infatti il sito produttivo di Campi Bisenzio, la cui chiusura determinerebbe i licenziamenti, produceva componenti per automobili per la Fiat, prima che passasse nel 1994 al gruppo; il quale non è certo nuovo del settore, anzi le sue origini risalgono addirittura al 1700, nella fase della prima industrializzazione.

Società per azioni quotata in borsa, nel 2018 è stato comprata da Melrose Industries, una società a responsabilità limita britannica fondata nel 2003 che è stata criticata per la generosità con cui retribuisce i propri dirigenti, specializzata nell’acquisto di aziende anche con strategie aggressive per acquisirne il controllo.

Molti autori, in primis il compianto Luciano Gallino hanno indicato il processo di finanziarizzazione come intromissione del capitale finanziario nelle strutture direttive dell’economia materiale. L’obiettivo di realizzare profitto avviene non attraverso un processo produttivo ma con la capitalizzazione in borsa.

Questo pare un caso da manuale, tanto per gli assetti proprietari quanto per la logica dell’operazione. Cominciamo dai primi.

Gkn appartiene, come detto, a Melrose Industries, anch’essa quotata nella Borsa di Londra, ma chi la possiede?

Fra i maggiori azionisti c’è Capital Research & Management, una società che fa parte di un conglomerato finanziario statunitense – Capital Group – di 67 aziende; Select Equity Group, società finanziaria basata a New York che vanta un portafogli di 30 miliardi di dollari; Threadneedle Asset Management Ltd., società basata a Londra collocata sempre nel medesimo settore.

Né mancano due presenze familiari: Vanguard Group e BlackRock, fra i più possenti leviatani finanziari al mondo – l’ultima controlla alcuni trilioni di attività speculative in modo diretto e circa 18 in modo indiretto (ricordiamo, per dare il senso delle proporzioni, che il Pil dell’Italia vale circa 2 trilioni…).

Ognuna di queste società a sua volta è posseduta da altre, rendendo l’assetto proprietario ultimo un dedalo assai opaco e complesso.

Visto il peso di questa componente, non è sorprendente se constatiamo il peso del valore azionario nelle strategie d’impresa – che riveste però anche un valore di interesse personale: i due manager di punta di Melrose hanno venduto ad aprile scorso azioni della loro stessa società incassando – con una singola operazione – più del costo dei salari di un anno dei 422 lavoratori licenziati per mail.

Se vediamo cosa dicevano tali signori solo pochi mesi fa per attrarre investitori non c’è traccia della crisi dell’auto che costringerebbe – secondo le lettere di licenziamento – alla chiusura dell’impianto; anzi millantavano profitti a valanga col passaggio alla più ecologica auto elettrica, e vedendo i bilanci – come fa notare il Cna, l’associazione artigiani locale che li ha spulciati – i risultati attuali sono perfino superiori al bilancio previsionale di fine 2020.

Ma a maggio scorso si prometteva agli investitori un rapido incremento dei profitti intorno al 10%. La soluzione a breve? Ttagliare i costi. E per chi non lo capisse, nelle slide presentate dai dirigenti sopra la scritta indicante la necessità di »risparmi» c’era la figura di un omino: il lavoro. Tagliare i costi per poi presumibilmente rivendere l’intero comparto, lucrandoci.

Come si fa a non dire «Insorgiamo», come scrive il Collettivo di Fabbrica nella convocazione della manifestazione?