Nella primavera del 2021 il noto fumettista Gipi finiva al centro di una polemica, una shitstorm, nel gergo dei social, per una storiella di poche vignette pubblicata sul suo profilo Instagram. La storia di chiamava Finalmente un caso semplice e vedeva il Commissario Moderno alle prese con una donna che dichiarava di essere stata aggredita da Andrea. Giocando sul genere neutro del nome proprio, il messaggio del fumetto-come spesso ha spiegato in seguito Gipi- era quello di prendere le distanze dallo slogan «Alle donne si deve sempre credere». Il suo nuovo romanzo, Stacy, racconta la storia di Gianni, uno scrittore che si è dato alla televisione «da quando si è accorto che con i libri moriva di fame»; durante un’intervista, sollecitato dal giornalista, Gianni racconta un sogno in cui rapisce una ragazza e la narcotizza prima di rinchiuderla in un capannone. Il fumetto narra la sua redenzione di autore dopo il drammatico calo di popolarità e l’abbandono degli amici a seguito di questo scivolone mediatico.

Ma racconta anche il male, sognato, immaginato, o premeditato e forse reale che il suo demone- un Gianni glabro a metà strada tra Grillo Parlate e Lucignolo- vorrebbe infliggere ai colleghi della casa di produzione per vendicarsi del danno subito. Il demone è lo stesso che invano gli ha consigliato di tenersi per sé la storia di Stacy, poiché nessuna Stacy esiste e comunque dopo l’intervista, la vita professionale di Gianni andrà a rotoli. Il racconto incede per capitoli intitolati tutti allo stesso modo-come una serie televisiva- e mischia il fumetto con pagine di sola sceneggiatura scritte a macchina e altre che ospitano flussi di coscienza: con voluta ambiguità Gipi affronta il rapporto tra realtà e finzione, portando al massimo la tensione tra parola e immagine-elemento costitutivo del linguaggio e nello specifico, cifra inequivocabile del suo stile. La complessità di Stacy, la densità e l’aderenza di alcune sue parti a elementi del vissuto dell’autore rendono il nostro colloquio ricco e complesso. Ma visto che in fondo siamo seduti al bar, iniziamo dal calcio: Gipi è presidente del Real Zigan la squadra composta da ragazzi rom che «sono come una trasfusione di vita», dice mentre racconta della loro vittoria ai rigori contro la nazionale fumettisti, ottenuta nonostante la prestanza del portiere della squadra avversaria (il social media manager del suo editore, Coconino Press). Non lo distoglie dall’entusiasmo neanche la mia osservazione sul valore metaforico del portiere/social media manager che para i gol e non solo; in fondo Stacy parla anche di quello, di cannonate che si lanciano sui social, in pasto all’algoritmo- «sempre sia lodato» come dice Lalla, l’altro personaggio femminile del libro, del quale iniziamo a parlare.

Gianni racconta il sogno al giornalista. La sua è ingenuità o è consapevole di quello che potrebbe accadere?
Credo che Gianni sia preda della vanità, semplicemente vittima del suo narcisismo. Quando qualcuno ti dedica attenzioni-anche per lavoro, come nel caso del giornalista con l’autore- se sei un narcisista, o un po’ vanesio esageri sempre, perché godi talmente tanto dall’avere attenzioni per te che anche se hai esaurito il concetto, ti logora questo «friccicorino», questo desiderio di aggiungere, di completare. Gianni non fa questo, ma spara lì un sogno che non c’entra niente con il motivo dell’intervista. In quel momento è innocente, ma colpevole-se così può dire-di narcisismo, perché in fondo lui sta raccontando un sogno. Credo che almeno i sogni non ci diano responsabilità; io stesso ho sognato spesso cose allucinanti.

Per descrivere Stacy, Gianni usa una parola legata al tatto, forse alla vista, -burrosa- un aggettivo innocuo se decontestualizzato. Ma questa parola arriva come una cannonata…
Tanto che il giornalista, che è bravo, smette di scrivere perché capisce che non importa più che lo faccia. La frase che Gianni pronuncia è una frase innocente perché essere burrosi non è un connotato negativo, non è offensivo come non lo è parlare di qualsiasi consistenza della pelle. Volevo suggerire la sensazione dei sogni, che sono di una pasta differente, rispetto a quelle della coscienza. Gianni si sveglia con questo strascico di ricordo di sensazione di burrosità.

Nel proprio narcisismo l’artista si racconta in parte per agganciare il pubblico, in parte per autocompiacimento: quando capisce che questo atteggiamento può essere controproducente?
Non penso che ci siano regole che valgono per tutti, io sono per la libertà assoluta anche e soprattutto nell’espressione artistica, ma riconosco che possa condurre a sfaceli. Ho parlato degli affari miei in molti volumi ma arrivi a pensare che stai usando la vita delle persone che ti conoscono e ti vogliono bene per fare narrazione e inizia a sembrarti ingiusto o metterti a disagio dovresti smettere. C’è un fattore discriminante enorme, quando si è un autore narcisista che lavora con materiali autobiografici ed è il sacrificio: se ci si rende conto di essersi spinti troppo avanti, si deve compiere un sacrificio, non si può semplicemente ammettere di averlo fatto e continuare a scrivere e disegnare gli stessi libri.

E questo limite lo pone il feedback del pubblico?
No, ci se ne rende conto da soli, ci si rende conto di essere usciti da una via di rettitudine. Quando si lavora in campo artistico ci sono motivazioni più o meno «sane». Parlo di me, ne ho avute di poco sane, quando senza rendermene conto facevo libri per mendicare amore da parte delle persone che è comprensibile perché dipende da molti fattori, ma quando te ne rendi conto non ha senso giustificarsi. Bisogna cambiare, e cambiare ha sempre un costo. La tv mi portava grandissima notorietà, copie vendute, riconoscimento etc. Quando mi sono accorto che quella cosa mi faceva male a livello personale, non sono stato lì a raccontare il mio disagio. Smettere ha comportato dei sacrifici. Io sono un edipiano convinto: se ti sei accorto di aver amato e ingannato la madre, ti devi accecare. Magari un occhio solo, che così continuo a disegnare.

Qual è il tuo rapporto con il pubblico così attivo e talvolta feroce de social?
Lo trovo soprattutto superficiale: a questa età ho una tale compassione per i viventi e per quello che affrontiamo vivendo, che capisco che quella dei social è fuffa, le piattaforme sono un mezzo malato. Un giorno vedremo l’utilizzo dei social esattamente come adesso guardiamo le pubblicità delle sigarette degli anni ’50. Credo che abbiamo materiale estremamente nocivo tra le mani, che non lo sappiamo ancora e che il giro di soldi che c’è dietro è talmente enorme, che facciamo finta di niente. Basterebbe guardare l’aumento dell’incidenza di depressioni e psicosi tra i ragazzi e gli adolescenti che utilizzano Instagram; eppure tutti lo abbiamo ed è quasi impossibile tenere la giusta distanza, noi stessi ne siamo dipendenti. Mi sgomenta che dietro a un’applicazione che sbriciola il cervello di un ragazzino ci sia un magnate che guadagna tanto da farsi lo yatch e starsene in panciolle in Costa Smeralda.

Torniamo al libro: il demone accompagna Gianni da quando lui ha parlato di suo padre in un’altra intervista e Stacy appare quando lui racconta il suo sogno al giornalista. Il narcisismo dell’autore genera mostri o mondi paralleli?
Il sogno non ha molto peso narrativo, ma in effetti scatena tutto. Il demone è invece il centro del libro, che qualcuno ha definito un lavoro sulla cancel culture, opinione che non mi trova d’accordo. L’idea di Stacy nasce da un episodio di shitstorm effettivamente accaduto, ma quella è la mia vita e l’ho sempre usata per scrivere e disegnare. Il libro parla d’altro, della vanità e soprattutto del male. Per me il punto più importante è la scena dell’intervista televisiva, il fatto che Gianni accetti di parlare del padre morto. Ho iniziato il libro sull’onda della rabbia ma poi ho capito di aver improntato il mio lavoro sull’apprezzamento degli sconosciuti. Ma è un problema che la propria serenità dipenda da qualcuno che non conosci e non ti conosce.

Inoltre chi legge talvolta tende a confondere l’autore con l’opera…
Sì, e in più spesso il lettore contemporaneo cerca e vuole l’identificazione. Uno spreco di letteratura…nel senso non è che se leggo Delitto e castigo ci posso rimaner male perché la mia storia non compare. Molte cose adesso funzionano proprio perché agevolano l’identificazione e la gratificazione del lettore. Io quello non credo di averlo mai fatto, però certo, ho utilizzato molto l’autobiografia, quindi molte persone si saranno identificate.

Tra i molti doppi della storia ci sono anche due acque: il mare di Santa Severa, di fronte al quale Gianni parla con il demone e con Lalla e il Mekong dove ambienta i suoi ricordi con Stacy.
Il Mekong è un mistero: almeno l’80% del materiale è scritto e disegnato di getto, pescando dall’inconscio. Il libro è un po’ storto se ci pensi, ci sono cose che non tornano del tutto, ma non mi è interessato molto, non ci ho riflettuto troppo. Il giorno che ho disegnato Gianni e Lalla al mare cercavo una specie di pace che nel racconto non c’era ancora stata, ma non credo che ci sia molta simbologia nell’elemento acquatico. Normalmente non credo molto nell’inconscio o nei sogni, ma ho lasciato scorrere sulla pagina le scene che mi venivano in testa.

Le due linee narrative mostrano grandi differenze di linguaggio: la storia di Gianni e della casa di produzione non ha spazi bianchi, il resto del racconto a fumetti è disposto su strisce aperte senza riquadri.
Sì, volevo che le scene della vita del protagonista con la troupe della casa di produzione fossero soffocanti, e l’assenza di spazio bianco dà una velocità estrema, da affanno. Al contrario le parti terribili, nelle quali Gianni immagina o forse davvero lega a una catena Stacy e la rinchiude in un capannone, cioè le parti dove si racconta il male, fossero più gratificanti per l’occhio del lettore.

Gli studi televisivi sono davvero così, popolati di «benestanti che si atteggiano a figli del popolo»?
Non lo so, non ci sono stato abbastanza a lungo e comunque non ho stretto amicizia con nessuno.

È diverso dall’editoria?
Il modello produttivo dove ho messo il protagonista è una summa; è come se esemplificasse l’ambiente culturale genericamente inteso. I personaggi di Stacy fanno le serie tv perché mi permetteva di avere un gruppo di persone che potessero raccontare una storia, anche quella del soggetto che Gianni presenta dopo la shitstorm, se avessi ambientato la storia nell’edizione sarebbe stato più difficile. Ma è il mondo della rappresentazione e delle parole, che ho preso un po’ in giro senza nemmeno conoscerlo troppo a fondo.

Succede anche il contrario: gli eventi della vita di Gianni a un certo punto sono messi in pagina come il testo scritto di una sceneggiatura. Perché?
Lui è uno sceneggiatore e l’idea che alcune parti della sua vita diventassero la sua scrittura mi piaceva e soprattutto nel momento della storia in cui c’è una scena sesso: la mia prima scena di sesso senza immagini. Volevo che i protagonisti vivessero solo di parole. Volevo che finissero a letto, ma il sesso è una cosa così concreta e Gianni e Lalla, così invece costruiti di sole parole che mi sembrava fuori contesto mostrarli; limitarsi a scrivere quella scena si addiceva di più ai personaggi.

Finito il sesso, ritroviamo Lalla nuda a letto con i suoi occhiali neri giganti. Perché è affetta da uveite?
L’unico caso di uveite del quale sono a conoscenza è quello di Silvio Berlusconi. Lei è il mio personaggio preferito di sempre, farei cento pagine di dialogo tra lui e lei al ristorante, la trovo adorabile. Mi piace che lui sia un verme e lei lo comandi a bacchetta. Certo, non volevo toglierle mai gli occhiali, quindi mi sono inventato la malattia perché sarebbe stato strano che li avesse tenuti anche a letto…

Il libro è pervaso da un’estetica horror: il furgone bianco, il capannone, il borsone nero, la stessa copertina in cui il volto di Gianni sembra affacciarsi da uno spioncino…
Adoro gli horror sopra ogni forma cinematografica e poi ho alcune cose in comune con il protagonista come la fissazione per i diari dei serial killer, dei quali sono un grande appassionato. La prima volta che vediamo Gianni ha questo borsone di marca che effettivamente potrebbe diventare un elemento inquietante, ma in realtà sta andando a giocare a tennis… sto aspettando la querela dell’Adidas! Invece il furgone bianco e il suo sogno sono presi da un sogno che ho fatto.

Ma non hai un furgone bianco?
No no, ho una Fiat 500.

Gianni è un voyerista: lo spioncino del capannone è montato al rovescio e gli permette di vedere Stacy rinchiusa, senza essere da lei visto.
Certo, Gianni mostra alcuni tratti tipici di quei pazzi serial killer, morbosi e malati: sono caratteri mutuati da quello che leggo. Sono ossessionato dall’idea del male, leggendo e guardando certe cose cerco di capire come sia possibile che gli uomini siano così crudeli. Leggere questi testi è una finestra sulla cattiveria e sul destino: il diario di Elliot Rodger, citato nel libro, un ragazzo californiano che un giorno sale in macchina e spara a tutti quelli che incontra, è lucidissimo. Sono vite di assoluta solitudine, che in questi scritti si confessano.

Però c’è differenza tra l’horror e i serial killer reali.
Sì. Purtroppo e soprattutto nelle guerre contemporanee, sempre meno.