Col titolo Sopra i cambiamenti climatici, promossa nel 2017 dal Consorzio universitario Cineas del Politecnico di Milano, con i tipi di Gianluca Binello e i disegni di Achille Guzzardella e Emilio Giannelli, si ha la riproposta di due brani di Giacomo Leopardi, affidata alla puntualissima cura e con una illuminante postfazione di Carlo Ortolani. Il primo scritto è tratto dallo Zibaldone e data al 1827. Il secondo è il trentanovesimo di quella raccolta di Pensieri, pure attinta dallo Zibaldone, che Leopardi, in una lettera del 1837 all’amico Luigi De Sinner, descriveva come «un volume inedito di Pensieri sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta nella Società», e che aveva in animo di pubblicare. In quello stesso anno 1837 Leopardi muore e l’opera uscirà postuma, nel 1845, curata da Antonio Ranieri per l’editore Le Monnier.

Ebbene la prima nota di Sopra i cambiamenti climatici prende spunto da una riflessione, datata all’anno 1683, che si trova nelle Lettere familiari dello scienziato e letterato Lorenzo Magalotti (1637-1712), stampate a Venezia nel 1719, là dove si legge. «Egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno». Ormai si vestono gli abiti invernali a lungo, e Magalotti reca a testimone il suo vecchio padre che con certezza affermava che «in sua gioventù, a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state». Ne sorge una questione: è il clima che con gli anni va raffreddandosi, o è, con il crescere degli anni, che la memoria del proprio corpo una volta vigoroso, sopraggiunta la vecchiaia, induce il vecchio padre di Magalotti a ritenere più intensa ed estesa la stagione fredda rispetto ai tempi andati?

Leopardi osserva che anche i vecchi intorno a lui (e son passati, calcola, dalla lettera di Magalotti «cento e quarantaquattr’anni») denunciano l’aumento del freddo, ma considera: «Il vecchio, laudator temporis acti se puero (lodatore del tempo passato, quando era ancora un fanciullo), non contento delle cose umane, vuol che anche le naturali fossero migliori nella sua fanciullezza e gioventù, che dipoi. La ragione è chiara, cioè che tali gli parevano allora; che il freddo lo noiava e gli si faceva sentire infinitamente meno ec. ec.».

Chiarito questo lato delle «cose umane», Leopardi viene alle «naturali» e tocca l’argomento delle mutazioni climatiche al di là dei «caratteri degli uomini» mettendo innanzi una constatazione che oggi, a noi (passati altri cento e novantasei anni), non sorprende affatto allorché scrive: «Quello che tutti noi sappiamo, e che io mi ricordo bene è, che nella mia fanciullezza il mezzogiorno d’Italia non aveva anno senza grosse nevi, e che ora non ha quasi anno con nevi che durino più di poche ore. Così dei ghiacci, e insomma del rigore dell’invernata». Dunque, non il freddo, ma il caldo va crescendo nel nostro mondo col passar degli anni.

La seconda nota torna sui medesimi argomenti e li precisa. In apertura Leopardi affida a una pagina de Il libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione (1478-1529) la disamina dello stato d’animo dei vecchi riguardo al tempo presente e quanto paia loro mutato dal tempo passato, dove, tra l’altro, si ribadisce che «biasimano il tempo presente come malo; non discernendo che quella mutazione da sé e non dal tempo procede». E poi torna, Leopardi, non sul tema del maggior freddo («un fatto che non ha luogo») ma su quello dell’aumento del caldo. «È cosa, scrive, notata da qualcuno per diversi passi d’autori antichi, che l’Italia ai tempi romani dovette essere più fredda che non è ora.

Cosa credibilissima anche perché da altra parte è manifesto per isperienza, e per ragioni naturali, che la civiltà degli uomini venendo innanzi, rende l’aria, ne’ paesi abitati da essi, di giorno in giorno più mite: il quale effetto è stato ed è palese singolarmente in America, dove, per così dire, a memoria nostra, una civiltà matura è succeduta parte a uno stato barbaro, e parte a mera solitudine».