Incassare la «rivoluzione dei trasporti» in cambio del limite ai richiedenti-asilo. O barattare la svolta energetica con il giro di vite sulla sicurezza. Oppure, in alternativa, accendere l’agricoltura bio-compatibile, spegnendo però l’«irremovibile» opposizione al business militare con l’Arabia Saudita.

Nell’ultimo giorno teorico di trattative per il governo Giamaica la giungla di opzioni politiche sul tavolo dei Verdi è ancora tutta da defoliare. Mentre si avvicina il momento del giudizio dei delegati chiamati a decidere sul patto di coalizione con democristiani e liberali, che viaggia sempre – con buona pace di Angela Merkel – in altissimo mare.

NON SI TROVA ANCORA la quadra su «Europa, politica estera e interna, alloggi accessibili, lavoro, traffico e agricoltura» ammette il co-leader dei Grünen Cem Özdemir. Oltre alla distanza siderale sulla sorveglianza dei dati personali su Internet e, soprattutto, sulla protezione del clima appena celebrata alla Cop 23 di Bonn.

Le differenze con Cdu, Csu e Fdp rimangono «enormi» sottolinea Anton Hofreiter, tra i negoziatori del “gruppo esplorativo” dei Verdi: «Doveva essere la settimana della verità; è stata la settimana delle delusioni».

Intanto fuori dal partito la pressione aumenta. A partire dai bar nel maxi-gonfiabile a forma di porco alzato da Greenpeace di fronte all’Associazione parlamentare a Berlino (sede delle trattative Giamaica), o dalla contemporanea manifestazione degli attivisti delle Ong ambientaliste Nabu e Bund riuniti sotto lo slogan: «Potete fare ben più che aria calda».

Non poco fermento nell’area politicamente affine (nonché bacino di voti) preoccupata del prezzo della partecipazione ecologista al quarto Gabinetto Merkel.

Costo misurabile dalle scelte su transizione energetica, politica dei rifugiati e giustizia sociale, ma anche e prima ancora dalla tattica politica adottata nel negoziato con i partner.

«Non si può costruire un ponte solo da una parte» riassume la co-segretaria verde Katrin Göring-Eckardt, alle prese con «la mancanza di disponibilità al compromesso degli altri partiti» ovvero con l’obbligo di cedimento dei Verdi su punti salienti del programma non solo elettorale. A meno di non voler aprire la via al ritorno alle urne, improbabile eppure per niente impossibile come è consapevole il presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier che continua a tenere aperti tutti i percorsi costituzionali.

SUL FRONTE DEI VERDI, invece, l’ultima parola spetta ai delegati della 42esima Conferenza federale attesi il 25 novembre all’Arena nel quartiere berlinese di Alt-Treptow. Verrà sottoposto alla prova dei voti l’accordo stipulato con Merkel e i leader Csu Horst Seehofer e Fdp Christian Lindner secondo il principio «la base è il boss» assicurato dai dirigenti Grünen. Per questo la tenuta del patto (come del partito) non è affatto scontata, soprattutto se prevarranno le istanze dei neo-alleati.

A cominciare dalla Csu, prima avversaria intorno al tavolo delle trattative. L’intransigenza bavarese su migranti, sicurezza e riduzione delle emissioni (soprattutto delle conterranee Bmw e Audi) è semi-totale. Al punto da far sbottare perfino il premier del Baden-Württemberg Winfried Kretschmann che pure governa a Stoccarda insieme all’Union democristiana: «O vogliono fare qualcosa insieme, allora smettano con gli attacchi, oppure dicano chiaramente che non vogliono l’accordo».

Problemi, anche con le esportazioni di armi made in Germany ai wahabiti di Ryhad, come rivela l’ex vicepresidente del Bundestag Claudia Roth. Allunga la lista dei motivi che hanno imposto di anticipare la Conferenza inizialmente fissata a dicembre, un mese prima del “congresso” del prossimo 26 gennaio. Ben prima, si peserà la forza dell’anima sinistra dei Verdi, sconfitta dalla corrente dei «realos» che domina nell’attuale segreteria, ma ancora influente per il placet al compromesso.

UN ACCORDO PARCELLIZZATO anche per la cancelliera Merkel che non mantiene la prima parola del suo quarto mandato («concluderemo le trattative entro il 16 novembre») mostrando i segni della sua debolezza. L’unico documento comune di Union, Fdp e Verdi due mesi dopo il voto sono 61 pagine di punti che ripropongono le proposte dei singoli partiti. Un negoziato «fra piccoli», fuori dal controllo di Mutti, che si limita a coordinare il tavolo politico senza dirigerlo. Il dissenso fra partiti del suo nuovo governo sta minando il suo potere: sempre più ridotto, sempre meno sovrano.