«Uniti nella difesa. Uniti nel recovery. Più forti insieme». Lo slogan ufficiale della Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, per la prima volta ospitata in un paese dell’Ue, stride non poco con la nuova realtà post-elettorale che ha sfigurato il volto dell’Europa.

A PARTIRE dalla Germania, maggior contribuente dello sforzo bellico-finanziario per Kiev e paese-chiave per aprire all’Ucraina le due porte di Bruxelles, come chiedono insistentemente la presidente della Commissione Ursula von Der Leyen e il segretario Nato Jens Stoltenberg. Il cancelliere Olaf Scholz è reduce dalla più cocente sconfitta elettorale nella storia della Spd mentre la ministra degli esteri Annalena Baerbock si presenta come la leader dei Verdi quasi dimezzati dal voto Ue.

Ciò nonostante, dentro la mega sala del centro-congressi CityCube di Berlino l’imperativo per gli alleati è ottimismo e avanti tutta come e più di prima, almeno sotto il profilo della valanga di armi e denaro imprescindibili per mantenere a galla l’Ucraina. «Non ci sarà alcuna vittoria militare russa, nessuna pace dettata da Putin», scandisce Scholz aprendo i lavori del summit con duemila invitati di 60 paesi.

Ricostruzione? «La migliore è quella che non deve mai iniziare. Per questo dobbiamo sostenere Kiev nella difesa aerea», aggiunge il leader Spd ricordando la priorità più incombente del business delle imprese occidentali. Musica, per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: ha perdonato i vecchi attriti con Scholz e ieri per la prima volta non video-collegato ha parlato ai deputati del Bundestag in sessione straordinaria.

Doveva essere la celebrazione della riconciliazione tra Berlino e Kiev, il miglior segnale di unità contro Mosca; è stata guastata dal boicottaggio dei due veri vincitori delle Europee in Germania. Sahra Wagenknecht, leader dell’Alleanza sovranista nata da una costola della Linke, forte di 2.450.000 voti incassati domenica scorsa, abbandona platealmente il parlamento accusando Zelensky di voler allargare il conflitto.

«VOLTANDOGLI le spalle mostriamo solidarietà agli ucraini che vogliono il cessate il fuoco e non finire come carne da cannone. Condanniamo la guerra della Russia però oggi Kiev sta spingendo per l’escalation e l’entrata della Nato in una guerra a rischio nucleare».

Per opposti motivi lasciano l’aula i parlamentari di Afd definito da Verdi come «partito del Cremlino» ma pur sempre la seconda forza politica in Germania e zoccolo duro nella nuova delegazione tedesca all’Europarlamento, la più numerosa nell’Ue. Risultato: al Bundestag davanti a Zelensky c’erano 83 scranni vuoti.

«Ringrazio la Germania. L’Ucraina non sia divisa da un Muro. Alcuni credevano che quello di Berlino sarebbe durato per sempre come oggi pensano che Putin sia eterno. Chiuderemo la guerra ma alle nostre condizioni», tira dritto Zelensky con la metafora su misura. La montagna di miliardi di euro pronto-impiego immaginati da Stoltenberg alla vigilia del summit sono stati cassati dalla maggioranza dei governi Nato, però ieri gli alleati hanno spalancato non poco il portafoglio.

Per il governo Meloni a Berlino c’era il ministro degli esteri Antonio Tajani, pronto a firmare il memorandum d’intesa con Kiev del valore di 140 milioni di euro – di cui 45 per la ricostruzione di Odessa con la partecipazione delle imprese italiane che il ministro ha incontrato lunedì nell’ambasciata italiana – e soprattutto in procinto di inviare la batteria di missili Samp-T.

«Questione di settimane. Ho parlato con Zelensky, mi ha ringraziato per il nostro consistente pacchetto militare-finanziario. Vertice positivo per noi. Abbiamo raccolto il testimone per la prossima conferenza sulla ricostruzione ucraina che si terrà in Italia nel 2025». In realtà il summit che conta sarà soltanto il vertice di Washington dedicato al 75esimo anniversario Nato in programma dal 9 all’11 luglio: formalmente la conferenza di Berlino è stata solo l’«evento preparatorio» per preparare il terreno comune e dare il tempo a ciascuno di sistemare i nodi scomodi.

A RIGUARDO, spicca l’assenza al vertice dedicato alla ricostruzione proprio del commissario ucraino che fino all’altro ieri se ne occupava, finito nell’ultima purga di Zelensky dopo aver denunciato i bastoni fra le ruote messi dal suo governo. «Ha sistematicamente minato l’attività della mia agenzia».

Così Mustafà Nayyem – l’uomo a cui è affidata la sovrintendenza del recovery civile ma anche il controllo sulla costruzione delle fortificazioni militari – si è dimesso dopo aver fatto emergere anche all’estero l’opacissimo sistema di appalti privati all’ombra alle nuove casematte. Con «sorpresa e disappunto» di gran parte dei delegati occidentali, tengono a precisare a Berlino, senza accusare nessuno.