Su quel nascondiglio misterioso giravano in Europa solo voci nella ristretta cerchia degli studiosi e dei mercanti d’arte. I guardiani della sinagoga Ben Ezra, a Fostat – la vecchia Cairo egiziana – ne custodivano invece il segreto tra superstizioni e inconsapevolezza. Per loro era solo un vano sopra il matroneo, una soffitta senza finestre a cui si accedeva da una traballante scala a pioli. Si mormorava che al suo interno si nascondesse un serpente velenoso e che a colui che vi fosse entrato sarebbe accaduto qualcosa di male.

LÌ, AL SECONDO PIANO della sinagoga, era posta la Geniza – parola ebraica di origine persiana con una radice che rimanda a riserva o a tesoro nascosto. Ogni comunità ebraica ha una Geniza, il deposito dove riporre i testi che il tempo o l’errore umano hanno reso inutilizzabili in attesa di seppellirli in un cimitero. Ha fascino l’idea che le parole abbiano un’anima che non vada profanata. Così, nella Geniza del Cairo, vennero accumulate parole vergate su pergamena, su papiro o su carta di stracci. Parole sacre e profane, accatastate e poi dimenticate.
Il secco clima egiziano ha preservato molti documenti, altri sono stati mangiati dalle pulci, altri ancora rovinati dall’incuria ma una strana forma di dimenticanza ha impedito alle generazioni che si sono susseguite di provvedere alla sepoltura e la soffitta sopra il matroneo, secolo dopo secolo, ha continuato a riempirsi.

INTANTO DALL’EUROPA – era la seconda metà del 1800 – i viaggiatori esploravano l’oriente e, insieme alle mummie, riportavano in patria anche manoscritti: erano gli anni in cui gli antichi egizi dominavano la scena degli studi e degli scavi in un’asportazione frenetica e sistematica che arricchì collezioni e biblioteche di mezzo mondo.
In un giorno d’autunno del 1896 a Cambridge, Solomon Schechter si imbattè in Agnes Lewis e Margaret Gibson, gemelle viaggiatrici poliglotte e valenti studiose. Le sorelle gli mostrarono i manoscritti che avevano riportato da un loro viaggio in Egitto e Schechter rimase molto impressionato da un frammento che sembrava «essere stato usato dal salumiere per avvolgere qualcosa di grasso». Lo annusò, chiese di studiarlo. Quando ne capì il significato il talmudista di origini rumene, la barba rossa incolta e cespugliosa, venne preso da un’ansia incontenibile: si trattava di pochi versi dell’originale ebraico dell’Ecclesiastico, un testo creduto perduto che è parte del canone di alcune confessioni cristiane, un piccolo quadrato su cui una mano del decimo secolo aveva vergato i versi di Ben Sira. Capire da dove provenisse quel frammento divenne per le gemelle e per Schecther l’impegno delle settimane seguenti, tra la necessità di mantenere il segreto sul luogo del ritrovamento e quella di trovare fondi per il viaggio in Egitto. Schechter partì a dicembre e il 28 gennaio del 1897 era già tutto concluso. Nella sua stanza al Cairo otto grandi casse di legno erano pronte a partire per la Biblioteca di Cambridge: contenevano 190mila frammenti con il racconto di secoli di vita, storia, commerci, religione degli ebrei di Fostat e dell’intero Mediterraneo.

LA SINAGOGA BEN EZRA è stata costruita nel 882 ma oltre ad essere luogo di preghiera aveva anche un ufficio per le politiche sociali, una mensa per poveri, un ostello ed era sede del tribunale rabbinico. L’antro polveroso e maleodorante che Schechter vide una volta che i suoi occhi si furono abituati al buio era il deposito dei documenti religiosi e profani accumulati nel corso di una decina di secoli da una comunità ebraica mediorientale di un luogo cardine dei commerci e della cultura, che collegava oriente e occidente, l’Africa e l’India, gli arabi e gli ebrei.

DOCUMENTI – pagine, interi rotoli o piccoli frammenti – scritti in ebraico, arabo, copto, siriaco, francese, georgiano antico, aramaico, giudeo arabo, giudeo spagnolo, persiano, latino, greco, perfino yiddish e, in un caso, anche cinese. Senza farsi spaventare dalla polvere e dalle pulci Solomon Schechter portò via tutto: frammenti liturgici e contratti matrimoniali, pagine di Talmud, decisioni rabbiniche, biografie di uomini illustri e di persone sconosciute. Sentenze di divorzio e registri mercantili, testamenti e lettere di credito, inventari matrimoniali e bolle di carico. Editti e proclami. Nuove poesie di autori della Spagna ebraica sotto la dominazione araba e versi di autori sconosciuti. Testi di sette ebraiche oggi scomparse e inni. L’archivio involontario di un mondo. Oggi si parla di un periodo classico della Geniza che riguarda i documenti compresi tra fine del decimo secolo e la fine del tredicesimo.
«Mi è impossibile resistere al sentimento di tristezza che mi invade – scriveva Schechter una volta rientrato a Cambridge, nella sala messa disposizione dei suoi maleodoranti e preziosi frammenti – difficilmente avrò l’onore di vedere tutto ciò che la Geniza aggiungerà alla nostra conoscenza degli ebrei e del giudaismo. Questo non è un lavoro per un uomo solo e nemmeno una sola generazione». D’altro canto, prosegue: «La Geniza è un mondo completo di aspirazioni religiose e profane, di desideri e delusioni. Ci vuole un mondo per interpretare un altro mondo, o almeno, una folta squadra di lavoratori. Ogni giorno trovo qualcosa di prezioso. Un mondo ebraico sconosciuto si rivela ai nostri occhi».
Fu facile profeta: nei decenni seguenti lo studio del materiale della Geniza del Cairo ha coinvolto personaggi curiosi e professori di rilievo, esperti di analisi testuale e talmudisti, storici e studiosi di poesia, filologi e glottologi, filosofi, biblisti, arabisti e, adesso, anche informatici. Le centinaia di migliaia di frammenti, oggi conservati in 75 luoghi diversi del pianeta, in collezioni private o in prestigiose biblioteche di tutti i continenti, hanno continuato per un secolo e mezzo a raccontare il mondo che li ha creati.

TRA TANTE STORIE c’è anche quella di Dunash Ben Labrat, il fondatore della nuova poesia andalusa in lingua ebraica. Marocchino dal nome berbero, aveva studiato in Babilonia, e aveva elaborato il modo per adattare all’ebraico la metrica dell’arabo: «che le Scritture siano il vostro Eden – riportano Adina Hoffman e Peter Cole ne Il cimitero dei libri. La Geniza del Cairo un mondo perduto e ritrovato, edizioni Officina libraria – che i libri degli arabi siano il vostro boschetto paradisiaco». Quando, a trent’anni, Ben Labrat giunse in Andalusia portò con sé la nuova poetica.
Ma se i ritrovamenti della Genizà hanno continuato a entusiasmare gli studiosi, un uomo in particolare ne riscoprì l’importanza: era il 1955 quando un arabista israeliano, Shelomo Dov Goiten, venne condotto dal bibliotecario di Cambridge nella soffitta dove erano conservate le casse originali della spedizione dall’Egitto insieme a tutto il materiale che Schechter aveva contrassegnato addirittura con l’epiteto «spazzatura».
Ma negli anni 50 era nata un nuova idea della storia che riguardava anche le classi subalterne e la storia della cultura nel suo complesso. A Goiten bastò poco per identificare, tra quella «spazzatura», molto materiale prezioso. Carte minute da cui Goiten ricostruì la vita di sconosciuti, negozianti e mendicanti, giovani spose e scribi, omosessuali e sette messianiche. A interessarlo erano le carte quotidiane, le deposizioni giudiziali, le bolle di carico, il funzionamento della posta. Dai registri mercantili ricostruì le tinte dei tessuti di un mondo pieno di colori. «I maschi medioevali – scrisse – sembrano uccelli canori tropicali». Anni di studio intenso da cui nacque A Mediterranean Society, cinque volumi sulla quotidianità della società medioevale mediterranea.

FRA LE MOLTE VICENDE che Goiten ha ricostruito in oltre trent’anni di lavoro c’è quella di Abraham, figlio unico di Mosé Maimonide, figura fondamentale della filosofia medioevale e della riflessione giuridica ebraica. Medico come il padre, Abraham fu studioso e capo della comunità ebraica. Goiten riscoprì suoi documenti autografi ma oltre a uomini illustri raccontò anche di sconosciuti: «Wuhsha, la sensale» era una ricca divorziata dell’undicesimo secolo con un’attività di prestiti su pegno. La radice araba del nome fa riferimento sia a «oggetto di ardente desiderio» che a «ribelle».
Spregiudicata donna d’affari e faccendiera grintosa, i documenti che la ricordano riguardano anche la sua vita privata. Raccontò a un amico di aver avuto una relazione ma temeva che l’amante non riconoscesse il figlio, così l’amico le consigliò di mostrarsi in intimità con lui alla presenza di persone che potessero testimoniare. Ma le voci sul suo comportamento furono tali che il rabbino la cacciò dalla Sinagoga. La sensale però non conservò rancore, superiore alle piccinerie dei maledicenti nel testamento lasciò denaro a entrambe le sinagoghe di Fustat.
Oggi le carte ritrovate nella Geniza del Cairo continuano a essere studiate e emergono nuove storie di un universo ebraico che dialoga con il mondo, parla arabo e con gli arabi ha vissuto e condiviso vita e commerci, storia e destini. In arabo la parola che indica funerale – janaza – ha la stessa radice di tre lettere di Geniza e vi è implicito anche il significato di nascondiglio.