A undici anni dalle grandi proteste per Gezi Park, piazza Taksim a Istanbul continua a rappresentare un luogo di conflitto e di scontro politico. Lo scorso primo maggio, nel momento in cui un gruppo di manifestanti ha tentato di rompere il cordone di polizia che bloccava l’ingresso dell’area: si sono verificati oltre 200 fermi e nei giorni successivi le forze dell’ordine hanno infine portato a termine 49 arresti, identificando attivisti e attiviste anche attraverso le videocamere di sorveglianza e prelevandoli talvolta dalle proprie abitazioni.

Lo ha denunciato sui propri canali l’Associazione degli avvocati progressisti Çhd, mentre altri gruppi e partiti d’opposizione hanno confermato persecuzioni nei confronti dei propri membri, dalle forze filocurde dello Yesil Sol Parti alla confederazione dei sindacati rivoluzionari Disk.

ATTORNO A TAKSIM si gioca un contenzioso sia simbolico che giuridico, oltre che di memoria storica: durante la festa del lavoro del 1977 dei cecchini aprivano il fuoco sulla folla, uccidendo 34 persone e ferendone oltre 200; da allora le manifestazioni nel luogo furono vietate fino al 2010, per poi riprendere e culminare nella rivolta di tre anni dopo, la quale a sua volta fornì la scusa a Erdogan per chiudere nuovamente la piazza. Ma l’anno scorso la Corte costituzionale ha giudicato illegittima questa decisione, che è stata fatta rispettare additando una generica «minaccia terroristica» e per mezzo della mera forza poliziesca (erano 40mila gli agenti schierati per le strade della metropoli sul Bosforo il primo maggio di quest’anno). Non ci sono solo dinamiche politiche interne a guidare gli eventi.

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Fra le persone arrestate infatti anche cinque membri (Nazlı, Bengisu, Dilan, Yılmaz, Kemal) del movimento Filistin Için Bin Genç («mille giovani per la Palestina»), collettivo studentesco formatosi in contestazione alla risposta militare avviata dallo stato di Israele contro Gaza dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che si trovano ancora in detenzione a Silivri (la struttura carceraria più grande del paese).

«Il governo turco non tollera le nostre azioni perché vanno alla radice del problema», afferma un esponente del movimento contattato dal manifesto. «Le nostre iniziative stanno raggiungendo centinaia di persone e la partecipazione continua a crescere. Stiamo ricevendo la solidarietà di diversi soggetti politici, dai partiti dell’opposizione ai giornalisti e in generale da chi si sente vicino al popolo palestinese e alla sua sofferenza. Credo che stiamo riuscendo a mettere in evidenza l’ipocrisia dell’Akp e a organizzare gesti di supporto concreto con Gaza e la Cisgiordania».

IL PRINCIPALE obiettivo di Filistin Için Bin Genç è denunciare e fermare i rapporti commerciali che la Turchia intrattiene con Israele (nonostante a parole Erdogan si dica sempre a favore dei diritti della Palestina). In tal senso, sono stati promossi presidi di protesta come quello del 6 aprile di fronte alla sede di Istanbul dell’azienda petrolifera azera Socar per chiedere l’interruzione dei rifornimenti a Tel Aviv che passano dalla Turchia oppure inchieste con la collaborazione di diversi giornalisti tra i quali Metin Cihan (intervistato su queste pagine) per esporre pubblicamente i legami d’affari tra le classi imprenditoriali dei due paesi (tra cui spicca l’unione degli industriali e degli imprenditori Musiad, di tendenza islamista e conservatrice).

«Erdogan prova a ritagliarsi il ruolo di leader del mondo musulmano, ma il governo di fatto insiste a mantenere i rapporti che generano profitti», prosegue l’esponente del movimento, che ha un’identità prevalentemente studentesca e giovanile. «Questa ipocrisia era nota già da tempo ma gli eventi successivi al 7 ottobre l’hanno resa ancora più manifesta e, penso anche grazie al nostro impegno, una fetta sempre più grande della società turca se ne sta accorgendo».

NONOSTANTE la repressione subita durante le manifestazione per la Festa del lavoro, le iniziative del gruppo sono infatti proseguite: il 7 maggio si è svolto per esempio un presidio presso il consolato israeliano per contestare l’imminente operazione delle Idf a Rafah. «Continueremo a diffondere in Turchia la voce del popolo palestinese. Siamo fiduciosi che ci siano tante persone dietro di noi, che sostengono i diritti di chi oggi resiste fra Gaza e la Cisgiordania. I nostri pensieri intanto vanno ai nostri compagni e alle nostre compagne in prigione». Dal carcere di Silivri, ci dicono, le cinque persone arrestate riescono a comunicare all’esterno e a loro volta mandano messaggi di solidarietà al movimento e a chiunque scenda in piazza per la Palestina, in Turchia e altrove.