A 24 ore dal duplice attacco coordinato a bersagli insolitamente “grossi” come l’ambasciata di Francia e il quartier generale dell’esercito a Ouagadougou, l’unica certezza è il numero di soldati burkinabé uccisi (otto, ma ce ne sono diversi ricoverati in condizioni critiche) e quello degli assalitori «abbattuti», che sono altrettanti. I feriti complessivamente sono 80, molti i civili. L’azione non è ancora stata rivendicata ma la matrice è quasi certamente jihadista,

SI È TRATTATO di una vera e propria battaglia, durata circa tre ore, in un’area del centro città teoricamente blindata, che ospita anche diversi edifici governativi. Di gran lunga il più organizzato dei tre attacchi che hanno colpito Ouagadougou negli ultimi due anni, con autobomba che semina il panico e due commando armati di granate e kalashnikov che a rimorchio vanno all’assalto. Non di un ristorante o un hotel, come le volte precedenti, ma di due simboli forti e fortificati di tutto quel che le milizie jihadiste combattono, la presenza militare dell’ex potenza coloniale e il potere costituito della ex colonia in primis.

Ieri, mentre gli analisti soppesavano preoccupati la sfida senza precedenti costituita dall’attacco, è emerso un dettaglio che ne chiarisce meglio il movente, casomai ce ne fosse bisogno. Poteva infatti essere una strage di alti ufficiali degli eserciti di cinque diversi paesi, se è vero che nell’edificio dello stato maggiore burkinabé era in programma una riunione di coordinamento del G5 Sahel, la forza armata multinazionale molto caldeggiata dalla Francia, e finanziata principalmente dall’Unione europea, con il fine di (far) combattere il jihadismo sempre più transfrontaliero che affligge la regione.

L’AUTOBOMBA lanciata verso l’ala dell’edificio in cui si sarebbe dovuto svolgere il vertice non ha causato una carneficina solo perché all’ultimo momento era stata deciso di spostare la riunione in un’altra stanza. E chissà che la scelta non sia stata dettata dall’allarme circolato nei giorni precedenti a livello di intelligence sulla possibilità di imminenti attentati in Burkina Faso.

Una possibilità che però era e resta concreta per ognuno dei paesi – Mali, Ciad, Niger e Mauritania, oltre al Burkina – che partecipano con uomini e mezzi all’ennesimo piccolo esercito in procinto di essere schierato nel già confuso e affollatissimo scenario saheliano. Ne sa qualcosa il Mali, teatro negli ultimi giorni di tre attacchi in cui sono morti due militari francesi impegnati nell’operazione Barkhane (4 mila uomini), 4 caschi blu del Bangladesh inquadrati nella forza Minusma dell’Onu (11 mila) e 6 soldati dell’esercito regolare maliano.

MA IL G5 SAHEL NON SI TOCCA, hanno ribadito con forza Macron e i cinque leader africani interessati dopo l’attacco di venerdì. Anzi, parallelamente alla «crescita della minaccia terrorista rappresentata dallo Stato islamico nel Gran Sahara e di Ansar al Islam», come denuncia l’ultimo rapporto Onu, il progetto è tornato prepotentemente al centro di vertici e “collette”. E il sogno di Parigi, che potrebbe così procedere a un disimpegno delle sue forze speciali (12 le vittime finora) mantenendo invariati contrasto al terrorismo e accesso alle risorse, torna realtà con il raddoppio dei fondi deciso da Bruxelles e il contributo turco aggiunto nelle stesse ore da Erdogan. Siamo vicini ai 500 milioni di euro che basterebbero appena per coprire un anno di operazioni con un contingente di 5 mila uomini.