«Non ho mai provato così tanto odio come quando me ne sono andato dal mio paese» scrive Carlos Manuel Álvarez, cubano tra i più interessanti della sua generazione, in Falsa guerra (traduzione di Violetta Colonnelli, Sur, pp. 272, € 17,50) dove racconta vite minime votate a disperdersi, a diradarsi in un universo fatto di paura, instabilità e rabbia. Nel romanzo la struttura narrativa è frammentata come le esistenze di cui racconta: dominano la scena la collera e un dolore sordo che sale in superficie, lungo attimi di consapevolezza che declinano l’esilio come una delle pieghe oscure dell’uomo contemporaneo, costretto alla deriva da una globale geopolitica della ricchezza, che separa i continenti con più forza degli oceani. Da un tale contesto Álvarez illumina lo smarrimento di chi è stato costretto o ha deciso di lasciare Cuba, per poi vedersi lentamente svanire in un quanto meno intermittente odio nei confronti di un sistema del quale non arriverebbe mai a fare parte. 

Álvarez sembra analizzare con estrema lucidità la fase che precede il distacco: il limbo obliquo e maleodorante delle vite che si trascinano lamentose e inascoltate, intorpidite da una quotidianità che si presenta come una sostanza appiccicosa di consuetudine e assuefazione. «Il fetore della nostra codardia allora era insopportabile […] Chi è cresciuto in quel posto non può non aver conosciuto il suono del lamento. La sua configurazione sentimentale non può negare gli effetti desolanti di quella cantilena interminabile. Un intreccio di ferro e servitù.» Il lamento ottunde, disarticola, mortifica il dolore, genera paralisi e assenza di ascolto, invischia ogni cosa nella massa gialla e appiccicosa di una degenerazione inarrestabile. «L’odio saliva perché non c’era nessuno a cui rivolgere la lamentela, perché se tutti si lamentano, se tutti si lamentano tutto il tempo, chi ascolta?».

Oltre il confine dell’esilio, il narratore si converte in flâneur: passeggia, osserva, registra le note di uno spartito estraneo, i movimenti e i discorsi della gente nei quartieri di Miami. La scrittura diluisce il dolore, permette di allontanarsi dall’esilio, favorisce un distacco che mitiga la nostalgia. «Conoscevo la città, non mi era in nessun modo estranea. […] Era un esilio senza nostalgia, la memoria debole, la rabbia diluita, senza una coscienza accertabile di lotta o resistenza, un tipo di esilio anch’esso esiliato dalla propria nozione simbolica di esilio». È come se il trauma dello sradicamento, l’atroce strappo iniziale, costituissero la premessa all’impossibilità di una corretta percezione. «Nessuno sembrava amputato, castrato o traumatizzato. Facevano i conti con una perdita, uno spostamento di qualcosa di irreperibile, un disagio vitale ma lieve, che nemmeno loro stessi sapevano fissare o definire». Una sorta di andamento frammentario investe tanto i personaggi quanto le loro  storie, per estendersi alla narrazione, che si fa metafora di  traiettorie esistenziali ora non più proiettate verso la fuga, né destinate al trauma: «La frammentazione non era più una tragedia. Non c’erano vittime nella dispersione. C’erano ramificazioni, meri spostamenti, storie che entravano in loro stesse e si allontanavano dal fuoco che le generava».