Case, alberi, altalene, copertoni, immobili, cristallizzati, immersi nell’acqua o che affiorano dall’inondazione che ha travolto una parte di Forlì nei giorni scorsi. Una bellezza tragica che si osserva come un’opera d’arte in cui non c’è traccia delle persone, cancellate, evacuate, allontanate, disperse. E ancora libri, Il Capitale di Marx, sedie, auto sporche e impantanate. Sono gli scatti de Il colore del fango, nuovo progetto della fotografa Silvia Camporesi che, da anni, punta il suo obiettivo sul paesaggio italiano.

L’artista è scesa in strada per documentare i primi giorni dell’alluvione nella sua città ferita, spaccata letteralmente in due: una parte sommersa, l’altra all’asciutto. Una serie di circa trenta immagini in cui, dopo il silenzio delle cose travolte dalla furia dei fiumi, riappaiono gli esseri umani con i giovani volontari sporchi di fango. Ci sono le cataste di mobili ed effetti personali, discariche di memorie e ricordi. Cose ammassate insieme, oggetti spiaggiati e senza vita che hanno perso tutto il loro valore affettivo. Il lavoro di Camporesi, per ora visibile solo sui social, presto sarà pubblicato.

Questa serie di scatti nata come«diario» sembra essere divisa in due parti, come Forlì…
Mi riconosco pienamente in questa visione, che oltretutto ha seguito l’andamento della tragedia. Io sono dalla parte di Forlì che si è salvata, perché abbastanza lontana dal fiume e il giorno dopo gli allagamenti abbiamo potuto vedere solo alcune strade, il parco, una parte di argine. Le prime immagini le ho scattate al parco, usando una tuta da pescatore, con l’acqua fino alla vita. È stato impressionante. Il secondo giorno sono potuta andare nella zona devastata, arrivandoci a piedi perché il transito è tuttora bloccato alle macchine. C’erano case con l’acqua fino ai piani alti, parcheggi pieni di auto interamente sommerse.

Solo dal terzo giorno sono cominciati gli aiuti, quindi man mano che diminuiva l’acqua e aumentava il fango, ho cominciato ad interessarmi alle persone. L’ho fatto in modo naturale, considerando anche che da anni non ne fotografo più, ma era una visione così unica, forte, che non ho potuto fare a meno di raccontarla. Non sono una reporter, le mie fotografie seguono normalmente un’altra logica, vengono definite «artistiche»; in questo caso non ho pensato a cosa stessi facendo, ho seguito l’urgenza del momento. Ancora non ci rendiamo veramente conto di quel che è successo. Il progetto nasce come un diario giornaliero sullo stato delle vie alluvionate. Spesso unisco testi ai miei racconti: anche in questa circostanza ho scritto quel che vedevo. Io fotografo solo in un modo. Ho cercato qualcosa di preciso, nello specifico ho tentato di mettere ordine in un contesto altamente caotico. Anche per raccontare il dramma serve un linguaggio: ho usato la mia esperienza in ambito artistico e sicuramente le immagini sono molto diverse da quelle che si trovano sui quotidiani.

Come si racconta una situazione così disastrosa?
L’ho fatto con un grande dolore, mentre scattavo non trattenevo le lacrime. Non potrei mai fare la reporter, mi sono prestata a questa causa perché è la mia città. Ho cercato di concentrarmi sulla parte «paesaggistica», sulla natura allagata, ma poi inevitabilmente ho inserito le persone perché erano tantissime ad aiutare.

Che valore ha lavorare su una crisi in corso?
Non mi è mai capitato di documentare una situazione del genere, non è il mio lavoro. Però le mie immagini hanno suscitato un grande interesse sui social: mi sono resa conto che la gente, guardandole, si trovava con me al centro di quella storia. Mi ha dato coraggio e stimolato a continuare.

Che distacco è riuscita a mantenere o quanto ha contato invece il suo coinvolgimento nello sguardo che ha posato su cose e persone?
Mi sono mossa spinta da un’urgenza interiore. Non sono stata colpita personalmente e camminando per quelle strade, vedendo persone che hanno perso case e macchine, mi sono sentita ingiustamente fortunata. Ho pensato che avrei potuto dare un contributo fotografando, lasciando immagini di quanto è successo. È una catastrofe inimmaginabile, solo chi ha vissuto qualcosa di simile può capire.

Cosa pensa della diffidenza manifestata da chi si sentiva violato dalle fotografie?
In tali situazioni non si può giudicare nessuno. Capisco benissimo chi si trova nella condizione di dover ricominciare da zero e non vuole un fotografo fra i piedi; capisco meno chi pensa che avrei dovuto impugnare una pala e aiutare anziché fotografare. Ognuno deve dare il proprio contributo. Io ho dato il mio in questo modo.