Non è riuscito all’opposizione golpista l’ennesimo tentativo di mettere alle corde il presidente Castillo. Il Congresso peruviano ha deciso di non ammettere la mozione di vacancia (l’impeachment) contro il presidente per presunta «incapacità morale permanente», presentata dalle forze di estrema destra il 25 novembre scorso.

E si è trattato del quinto tentativo di destituzione di un presidente in 4 anni, a dimostrazione dell’ormai cronica ingovernabilità di cui soffre il Perù a partire dalle elezioni del 2016 perse da Keiko Fujimori, ma ancor di più dopo l’impensabile vittoria del candidato dei diseredati del mondo rurale andino.

Per ammettere la mozione, contro cui diversi settori sociali hanno dato vita a una marcia proprio durante il dibattito parlamentare, servivano 52 voti: ne sono arrivati solo 46, con 76 voti contrari e 4 astensioni. Se l’estrema destra avesse avuto la meglio, assai difficilmente avrebbe poi incassato gli 87 voti necessari per la destituzione, ma intanto Castillo, già in calo nei sondaggi e accusato di tenere riunioni extraufficiali con funzionari pubblici, si sarebbe trovato sul banco degli imputati, con un danno di immagine incalcolabile. Per arginare l’offensiva, l’ex maestro e sindacalista aveva tenuto una lunga riunione con diversi leader politici, accordandosi sulla necessità di difendere la governabilità e di dare risposta ai gravi problemi del paese.

Ma a ritorcersi come un boomerang contro l’estrema destra è stata soprattutto la diffusione da parte del programma televisivo Cuarto Poder di un audio che, annunciato con titoli a caratteri cubitali come una prova clamorosa del coinvolgimento del presidente in atti di corruzione, ha finito per non rivelare nulla di illegale, smascherando la vera natura golpista di tutta l’operazione.

È evidente, tuttavia, che se Castillo vuole tenersi la presidenza deve operare urgentemente una svolta, sostituendo gli annunci con azioni concrete. Tanto più che persino il suo partito, Perú libre, non nasconde «discrepanze serie» con il suo governo.