Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, del M5S, si è dimesso il 23 dicembre dopo averlo annunciato per 110 giorni. La prima volta è stata il 5 settembre, prima e dopo avere giurato al Quirinale, ma lo aveva fatto già prima, quando ricopriva il ruolo di viceministro a Viale Trastevere con il “Conte Uno”. In poco più di tre mesi questo economista dell’università di Pretoria in Sudafrica, critico del sistema di valutazione adottato con un raro fanatismo neoliberale nel 2011, ha ribadito che avrebbe lasciato la carica da ministro se il suo governo non avesse rifinanziato il sistema con tre miliardi di euro: due alla scuola, uno all’università e alla ricerca. Una cifra giudicata appena sufficiente per mantenerle oltre la linea di galleggiamento, ma necessaria per inviare un segnale in controtendenza rispetto agli 8,4 miliardi (più di 7 alla scuola, e 1,1 a università e ricerca) tagliati dal governo Berlusconi-Tremonti-Gelmini nel 2008 e mai più da allora rifinanziati. Il governo “Conte Due” ha raggranellato “solo” due miliardi per tutto il comparto nella legge di bilancio approvata prima di Natale.

LE DIMISSIONI PIÙ ANNUNCIATE nella storia dell’istruzione in Italia sono state date nei giorni di Natale per evitare al parlamento chiuso per ferie di discutere il caso. La sola possibilità avrebbe mostrato il nuovo caos che attraversa il governo, su una questione di primo piano, fino ad oggi a dir poco sottovalutata. Alla riapertura delle camere dovrebbe esserci un altro ministro con gli stessi problemi. L’anomalia dei modi, e dei tempi delle dimissioni di Fioramonti, è stata stigmatizzata da Francesco Sinopoli, segretario della Flc Cgil, che chiede a Conte di garantire le risorse per istruzione e ricerca: «Altrimenti il rischio è che qualunque ministro che seguirà non potrà fare a meno di seguire le orme di Fioramonti». Conte è lo stesso premier che dopo avere siglato un’intesa con i sindacati sugli aumenti “a tre cifre” degli stipendi dei docenti il 24 aprile scorso ha parlato di una «fase due del governo». Era quello precedente con Lega e Cinque Stelle caduto in agosto. In quello attuale ha appena perso un ministro. A viale Trastevere si attende qualcuno che il 7 gennaio diriga il primo tavolo di confronto sullo svolgimento di due concorsi, uno ordinario e uno straordinario, per 50 mila docenti della scuola secondaria, elaborati sotto il Conte Uno e finalizzati dal suo successore.

LE RAGIONI DELLE DIMISSIONI sono politiche e riguardano le priorità scelte dal governo in questi tre mesi. Le ha evidenziate lo stesso Fioramonti in un post pubblicato su Facebook: «Pare che le risorse non si trovino mai quando si tratta della scuola e della ricerca, eppure si recuperano centinaia di milioni di euro in poche ore da destinare ad altre finalità quando c’è la volontà politica», ha scritto. L’allusione è ai 900 milioni di euro investiti dal governo per salvare la Banca Popolare di Bari o i 190 euro di aumento ai bancari contro i 35 euro netti garantiti agli insegnanti che devono recuperare oltre mille euro di potere d’acquisto perduto in anni di contratti bloccati. Parole scritte da Fioramonti in una lettera a Conte mentre il ministro dell’Economia Gualtieri, già docente di storia alla Sapienza, alla vigilia di Natale prometteva in un’intervista di dedicare più attenzione all’istruzione nella prossima manovra.

UN IMPEGNO che dev’essere sembrato a Fioramonti troppo vago per rinviare le dimissioni già pronte. «Questo governo può fare ancora molto e bene per il paese se riuscirà a trovare il coraggio di cui abbiamo bisogno», ha scritto. Trovare coraggio in soli tre mesi è difficile. Ma anche in un anno e più. Se non c’è, il coraggio, non te lo puoi nemmeno dare. Dev’essere stato questo il ragionamento che ha spinto alla fine il ministro a dimettersi. E ad allungare un’ombra sul natale di un governo che fino ad oggi si è scornato sulle proposte più occasionali: dalla Plastic Tax alla Sugar Tax, tra l’altro proposta all’inizio proprio da Fioramonti. «Il 5 per cento della manovra», l’ha definita Gualtieri.

DI FIORAMONTI si ricorderanno una certa effervescenza nelle proposte più simboliche che di sostanza: il ripensamento dell’alternanza scuola-lavoro, poi confermata come condizioni di accesso alla maturità; posizioni contraddittorie come la critica ai test Invalsi e il loro via libera come se fossero un destino irrinunciabile; l’opposizione all’agenzia nazionale per la ricerca non tanto per la sua oscura utilità in un panorama già compromesso, quanto per le nomine politiche dei suoi vertici, approvati infine nella legge di bilancio. Oppositore e al governo, Fioramonti è rimasto da solo e da solo se ne è andato.

IL SUO ATTO FINALE dimostra che non è stata ancora del tutto compresa l’emergenza creata dal disinvestimento del 20 per cento nella ricerca e nello sviluppo negli ultimi dieci anni.

SECONDO L’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, la spesa è diminuita del 9 per cento tra il 2010 e il 2016 sia per la scuola che per l’università, mentre gli investimenti per l’università sono stati ridotti del 14 per cento dal 2008 al 2014. Il Consiglio nazionale universitario (Cun) ha, di recente, rilevato che i fondi concessi alla ricerca con il contagocce (469 milioni nell’ultimo biennio) sono stati devoluti a interventi occasionali – i dipartimenti “di eccellenza” e al reclutamento per ricercatori precari. Mentre il finanziamento strutturale diminuisce da molti anni. Dagli oltre 6,4 miliardi del 2014, già tagliati sei anni prima, ai circa 6,260 miliardi del 2019.