Lo schermo e lo spettro (Mimesis, pp. 328, euro 26) di Leonardo De Franceschi, docente di teorie e pratiche postcoloniali del cinema e dei media all’Università Roma Tre, è una raccolta di saggi sul cinema transnazionale, con una ricerca meticolosa e approfondita sui filmmaker, sceneggiatori e attori afrodiscendenti, ma anche sulla costruzione visuale della razza nei film diretti dai registri italiani per un pubblico italiano. Fucina di sollecitazioni e di intuizioni geniali, è un libro importante. Non solo perché mette a nudo gli sguardi sulla condizione postcoloniale; o perché mostra l’eredità dell’archivio coloniale. Infatti, come scrive acutamente Áine O’Healy, che sigla la prefazione, «l’emergenza dell’approccio transnazionale negli studi del cinema in lingua inglese evidenza la presa in carico di un’interrogazione critica più ampia sulla rilevanza delle cornici nazionali nel panorama della globalizzazione». De Franceschi coniuga globale e nazionale, mostrando interdipendenze e declinazioni molteplici dall’elaborazione delle trame alle performance dei personaggi neri nel cinema italiano, dalla cartellonistica dei film alle narrazioni della razza.

IL VOLUME, dal punto di vista teorico, è ancorato a un dibattito internazionale che, come ricorda l’autore, prende il via quasi trent’anni fa con un famoso saggio di Stuart Hall contro la lettura essenzialista del soggetto nero. Anche lo sguardo adottato è innovativo: l’orizzonte che l’autore assume nel perimetro della ricerca riguarda una geografia immaginaria del cinema che tocca tanto la sfera pubblica – dal mercato alla cultura socializzata sui social – quanto quella dei luoghi di formazione come le università. Lo schermo cinematografico è considerato sia una «finestra sul reale», sia «uno specchio di incrostazioni, pregiudizi, fantasmi riconducibili alla cornice storica del colonialismo al cui interno il cinema è nato, in quanto pratica espressiva e industriale». Lo spettro del titolo e nelle vesti assunte, pagina dopo pagina, è il colonialismo come «esperienza di rinegoziazione di rapporti di forze profondamente asimmetrici e iscritti in un archivio culturale millenario, nel quale la razza, la classe e il genere si intersecano secondo configurazioni storico-contestuali di volta in volta diverse».
La prima parte del volume, intitolata «Sguardi d’Africa e diasporici dietro e davanti alla cineprese», raccoglie sei percorsi di ricerca diversi: si parla del cinema del regista tunisino Nouri Bouzid che mette in scena le storie di soggetti fragili, marginali, divisi e in lotta contro un sistema autoritario, da L’homme de cendres (1986) a Making Off (2006); ma anche dell’io-mondo di Youssef Chahine e Abderrahmane Sissako che agisce, nelle pellicole, promuovendo la disalienazione e la decolonizzazione della cinematografia. In un altro contributo, De Franceschi racconta l’attorialità come luogo di lotta per gli africani e gli afrodiscendenti nel cinema italiano post-1989.

L’AFRICA, in un altro saggio ancora, è il luogo del ritorno, un orizzonte emotivo che racconta drammatiche storie di fallimenti e delusione, ma anche possibili alternative ai viaggi verso la Fortezza Europa. Si affrontano, sempre in questa sezione, altri due temi: quello dei cineasti afrodiscendenti del decennio scorso e il caso di divismo nero di Omar Sy, attore nero nato a Trappes, un sobborgo nella periferia di Parigi.
La seconda parte del volume propone sette percorsi sottotraccia del cinema italiano. Apre questa sezione un contributo sulle controstorie sull’Africa coloniale, dal Lion of the Desert (1981) di Mustapha Akkad a Fascist Legacy (1989) di Jack Kirby, fino ad Adwa (1999) di Haile Gerima. Italia Addio, il saggio che segue, riguarda invece il cinema italiano visto e interpretato dall’altra parte del Mediterraneo, da cineasti nordafricani e subsahariani. A questi spostamenti di sguardo sul confine dell’Europa ne seguono altri: il primo riguarda uno scritto sulla liberazione dell’immaginario nelle pratiche autoriali di Souleymane Cissé, di Djibril Diop Mambety e di Sissako; il secondo analizza i racconti di ospitalità nella Schengenland a firma di tre registi: Crialese, Kaurismäki e Lioret. Gli ultimi tre articoli analizzano la linea del colore concentrandosi sul blackface, e delineandone uno sviluppo nel cinema italiano lungo oltre cento anni; il razzismo raccontato nella forma di commedia nel cinema italiano; e la rappresentazione del bianco e del nero nella cartellonistica cinematografica italiana.