È una radicale indagine del volto quella che propone Simón Mesa Soto in Amparo, film vincitore a pari merito con Soula dell’algerino Salah Issaad alla trentunesima edizione del Fescaaal – Festival del cinema africano, d’Asia e America latina, terminato a Milano domenica scorsa. La rassegna abbraccia la ricerca e la pluralità di sguardi di tre continenti mantenendo un rapporto d’elezione con quello africano, la cui produzione filmica sta trovando di nuovo sempre più spazi e interesse in Europa.

SE SECONDO IL FILOSOFO Emmanuel Lèvinas il volto dell’altro è un appello che ci chiama a prenderci cura della sua esistenza, quello della protagonista che dà il nome al film, Amparo, testimonia il profondo fallimento di questa sfida. La donna interpretata da Sandra Melissa Torres – finora un’attrice non professionista, premiata alla Semaine de la critique come «stella emergente» – vive, infatti, circondata da una tenace indifferenza. Da parte di tutti, anche dei presunti affetti più prossimi. Per Amparo non si prova alcun amore, perché è stata ritenuta colpevole: colpevole di aver divorziato due volte, colpevole di non aver saputo educare i suoi figli. Il problema in queste accuse è il metro di giudizio, che sentenzia sulla base di una norma astratta. La stessa che condanna il figlio maggiore, Elias, ad arruolarsi – siamo nella Colombia del 1998 – in una delle zone più calde del Paese. Eppure, quando c’è la volontà, la norma impiega un attimo a sgretolarsi nella corruzione. Certo, il prezzo è alto, non solo economicamente: si chiede ancora una volta ad Amparo di rinunciare alla sua integrità. Mesa Soto cerca nei volti le risposte alla durezza della vita, alle tragedie ingiuste, in ultima istanza all’esistenza del male. Ne emergono ferite non risanabili, nell’insensatezza nella condizione umana, dove risalta l’elemento maschile come votato unicamente alla rapacità e all’egocentrismo. L’unica luce in un film oscuro è la forza del rapporto tra Amparo e i suoi figli, perché l’amore può germinare pur in condizioni avverse, tenendo ben presente che non è mai scontato – la madre della protagonista è la più crudele tra coloro che disprezzano.

SPOSTANDOCI in Bolivia troviamo invece 98 segundos sin sombra di Juan Pablo Richter, che presenterà oggi 10 maggio il film a Bari, alle 20.30 al teatro Kursaal Santalucia all’interno della rassegna Registi fuori dagli sche(r)mi. Se anche in questo lavoro l’ambiente sociale e familiare è vissuto con dolore, l’adolescente Genoveca riesce però ad abbandonare la strada maestra per trovarne una, personale, di liberazione.
L’haitiano Freda, brillante esordio alla regia di Gessica Généus, ha ricevuto una menzione speciale della giuria per l’incisiva indagine dell’elemento femminile. Lo stesso riconoscimento è andato anche a Nous, Étudiants!, primo lungometraggio di Rafiki Fariala e in assoluto primo film della Repubblica centrafricana, dove la condizione degli universitari della capitale Bangui viene mostrata in tutta la sua complessità. Ancora una volta la corruzione la fa da padrona in questo mondo in cui i giovani protagonisti cercano faticosamente, ma anche con levità d’animo, una via per la realizzazione.

TRA I FUORI CONCORSO si è fatto notare Children of the sun dello srilankese Prasanna Vithanage, membro della giuria insieme a Mario Brenta, Karine De Villiers, Sonia Bergamasco. Infine, Mother Lode di Matteo Tortone ha vinto il Concorso Extr’a, dedicato ai film di registi italiani, o residenti in Italia, che mirano a raccontare la diversità culturale del nostro Paese. Le due menzioni speciali sono andate a Amuka di Antonio Spanò e a Rue Garibaldi di Federico Francioni. Quest’ultimo racconta la vita di Ines e Rafik, siciliani di origine tunisina emigrati a Parigi. E la loro tenacia, il desiderio di trovare la propria strada, la forza dei legami nelle difficoltà riassumono le tante storie lasciate in eredità dal festival; storie che ci osservano, mettendoci in questione e spingendoci ad entrare in risonanza.