Maestro delle mie brame di Daniele Archibugi (Fazi, pp. 235, euro 18) comincia come una specie di thriller: un uomo sparisce, e i suoi amici, colleghi di lavoro, vicini di quartiere, si mettono alla ricerca, esplorano il territorio, coinvolgono i media e la polizia (che aiutano e intralciano a modo loro), ricevono indizi e voci plausibili e stravaganti… Ma è un’altra cosa, e la spia è nella voce narrante troppo partecipe, troppo coinvolta, per non essere essa stessa parte dell’enigma.

È IL 1987. La persona cercata, e mai più trovata, è Federico Caffè, un economista illustre, uno degli uomini migliori e più seri che l’università italiana, forse l’Italia intera, abbia mai avuto. Da qualche giorno si è allontanato da casa e senza lasciare tracce, e non sarà più ritrovato. La persona che cerca è un suo allievo, improbabile amico più giovane di una generazione, e – come capisce solo alla fine della ricerca – figlio putativo mancato.

Già nel titolo ci sono tutti e due, il maestro cercato e l’amico\allievo\figlio desiderante. Questo non è un «cold case» di cronaca; è una ricerca appassionata del significato di un rapporto che segna due vite. Ci sono assenze che, proprio perché tali, non cessano di essere presenti alla memoria e ai sentimenti; quella di Federico Caffè è una delle più potenti, un’assenza attorno a cui si raggruma l’identità perplessa di un paio di generazioni di economisti e di molteplici persone che gli erano vicine. Proprio perché l’oggetto sceglie di sottrarsi, la ricerca e la brama non finiscono mai.

Come tanti maestri e padri, Federico Caffè non era facile – uno dei soprannomi affettuosi che gli avevano messo addosso era «Brontolo», e non mancano nel libro storie di sfuriate e persino un incancellabile scappellotto.

MA LE LETTERE e le memorie riportate nel libro delineano una persona capace di affezionarsi alla famiglia, agli amici, agli studenti e ai colleghi, molto più capace di dare che di ricevere, e sempre tormentato in sé. Aveva 34 anni, e si specchiava in una delle due uniche poesie che risulta abbia mai composto: «… Tu sei solo, Tu sei lontano. Sei senza conforto sei arido e inutile. Sei solo \… Sei un uomo morto».

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C’È MOLTA MORTE in questo libro. C’è quella di persone care della famiglia – a partire dal nipote Piero, gravato da un pesante ritardo cognitivo, morto poco più che bambino, «il più grande affetto della sua vita», la cui scomparsa lo fa sentire «svuotato» (e più tardi, la madre anziana, l’amatissima tata).

E le morti tragiche di allievi dei più cari: Ezio Tarantelli, assassinato dalle Brigate Rosse (e la fatica di dover pronunciare lui il suo elogio funebre), Franco Franciosi, Fausto Vicarelli. Deve essere stato molto pesante sopravvivere a tante persone amate.

Poco prima di sparire, Caffè soffriva di depressione, un malessere a quel tempio ancora innominabile, quasi come una colpa, difficile anche da ammettere e provare a curare. Ma se la sentiva addosso, aveva paura di sfaldarsi, e lo diceva agli amici prima di scegliere di andarsene.

Più di tutto, Caffè amava l’insegnamento, lo studio, l’università fin nei più minuti dettagli materiali (serrande che cigolavano, forbici scomparse…). Il libro è anche un rapido e puntuale percorso critico nell’accademia, nei meccanismi di potere che Caffè, «barone» anche lui, praticava senza scendere a compromessi degradanti, appoggiando gli allievi solo quando ne era convinto (non aiuta il suo miglior amico a vincere un concorso in una disciplina che non era la sua).

QUANDO COMPIE i settant’anni e finisce «fuori ruolo» (mai una frase burocratica ha espresso una verità così intima e così dolorosa), si sente ridimensionare gli spazi fisici e umani nella facoltà. Soprattutto, non può più insegnare. Archibugi racconta in modo toccante il rapporto di Caffè con gli studenti, soprattutto con quelli di cui seguiva le tesi, che spronava, criticava, aiutava, guidava. Perdere anche loro dev’essere stato insopportabile.

Attraverso il rapporto con Caffè, il narratore – che prima di laurearsi con lui lo frequenta fin da bambino perché suo padre ne è l’amico più stretto, forse l’unico vero, dai tempi della gioventù – ricostruisce in qualche modo anche i lineamenti della propria storia (e della sua famiglia). «Non ho raccontato la sua di vicenda, ma la mia».

Anche qui, quello che definisce tutto è una serie di atti mancati, di doni non riconosciuti e non ricambiati da par te di questo maestro «guida dell’anima»: «Sono colpevole perché non sono riuscito a fargli sentire quanto lui sia stato importante nella mia vita». Colpevole di non aver capito certi momenti e di non aver fatto il gesto che forse poteva cambiare qualcosa. «Ma soprattutto sono colpevole perché ho avuto paura di accettare il ruolo che lui desiderava interpretassi, quello del figlio mancato».

Scrivere questo libro, allora, non è solo raccontare una storia, non è solo memoria; è un atto performativo del presente, la parziale, tardiva ma intensa restituzione dei tanti doni ricevuti da un assente la cui assenza ci brucia ancora.

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