Cosa accomuna un copricapo tirolese a un cappello Chanel? E una camicia tradizionale rumena a un completo di Yves Saint Laurent? A porre tali quesiti, apparentemente azzardati, sono Marie-Charlotte Calafat e Aurélie Samuel, curatrici della mostra Fashion folklore in scena al Mucem di Marsiglia fino al 6 novembre. Come suggerisce il sottotitolo, il Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo propone un dialogo tra costumi popolari e Alta moda, a partire dall’organizzazione di quest’ultima in settore professionale nella seconda metà del XIX secolo per arrivare alle produzioni più recenti. Il tema dell’esposizione, intrinsecamente legato all’evoluzione del pensiero folcloristico e alla nozione di esotismo, è anche quello della creazione artistica, per la quale i prestiti – formali o tecnici – non sono sempre impregnati di scopi ideologici.

Il fulcro della rassegna è rappresentato dalle collezioni tessili del Mucem, che riuniscono molteplici fondi francesi ed europei, già ripartiti nel 1937 tra il Museo nazionale di Arti e Tradizioni popolari e il Musée de l’Homme (istituzioni derivate dal Museo di Etnografia del Trocadéro creato a Parigi nel 1878), i quali esibirono per l’ultima volta queste raccolte patrimoniali ormai trent’anni fa. Numerosi anche gli abiti provenienti da musei nazionali ed esteri, tra i quali il Museo delle Arti decorative di Parigi e il Museo della Moda di Marsiglia. Ovviamente presenti, fra trecento pezzi, anche le più note case di moda e stilisti del calibro di Balenciaga, Chanel, Dior, Fortuny, Galliano, Gaultier, Hermès, Kenzo, Lagerfeld, Saint Laurent, Rabanne, Schiaparelli, Weisanto e molti altri. L’allestimento, di forte impatto scenografico, è stato realizzato dall’Agenzia «Nc» di Nathalie Crinière, che ha scelto di collocare la maggior parte dei capi d’abbigliamento fuori dalle vetrine. Lunghe pedane orizzontali o inclinate permettono di apprezzare i dettagli dei vestiti e degli accessori senza barriere, trasformando il visitatore nello spettatore di una sfilata «sospesa», che attraversa spazi geografici e temporalità diversi e inimmaginabili. La totalità della superficie espositiva è sormontata da un lungo fregio, il quale mette in valore gli oggetti «faro» della mostra, generando un gioco di corrispondenze e sovrapposizioni con materiali iconografici e fotografici di archivio.

All’avvio del percorso, le curatrici non nascondono le contraddizioni che sembrano caratterizzare il rapporto tra costume tradizionale e Alta moda: il primo infatti origina da un gruppo, mentre la seconda è legata a un atto creativo individuale. L’abito tradizionale, inoltre, è un simbolo di permanenza mentre a guidare l’Alta moda sono i principî dell’effimero e del rinnovamento. Infine, mentre il costume popolare è associato a un territorio, l’Alta moda è uno dei fenomeni più rilevanti della globalizzazione. La mostra mira però a rovesciare questi assunti per testimoniare come, dagli inizi del XX secolo, i creatori di moda non smettano di convocare forme e immaginari connessi alle tradizioni. Quella che si dispiega al Mucem è dunque una storia che incrocia in maniera inedita i due ambiti, evidenziando la porosità tra creazione artistica e culture popolari, aspetto che era già stato approfondito nella stessa sede con la rassegna Folklore del 2020, condotta in partenariato con il Centro Pompidou di Metz e curata sempre da Calafat assieme a Jean-Marie Gallais.

Campioni di tessuto e ricami da Francia, Grecia, Slovacchia e Cechia (XX secolo), collezione di etnologia europea in deposito al Mucem dal Museo nazionale di Storia naturale di Marsiglia

L’esposizione odierna si apre con Rien que du bonheur (2008), un’opera donata nel 2022 da Franck Sorbier al Mucem, scelta anche come emblema dell’affiche della mostra e della copertina del catalogo pubblicato congiuntamente dal Mucem e da Gallimard (pp. 240, euro 39,00: un’edizione preziosa corredata da 180 immagini prevalentemente a colori). Si tratta di un abito ispirato alle spedizioni etnografiche del Trocadéro – confezionato con rafia, fibra di canapa e macramè –, che esalta le tecniche tradizionali della cesteria. Riecheggiante influenze indonesiane, il «vestito Larantuka» di Sorbier introduce la prima sezione della rassegna, dedicata ad «Appartenenze e identità». Studiato al principio dagli amanti del folklore, il costume tradizionale s’inscrive anzitutto nel gusto per il pittoresco e per l’esotismo. Senza tempo, esso testimonia il savoir-faire del popolo che incarna. Attraverso i riferimenti a modi di vita e culture tramandati dalle raccolte etnografiche, vengono qui indagati i viaggi, reali o immaginari, nei quali stilisti di fama internazionale si sono cimentati. A dominare questa parte dell’esposizione sono le creazioni di Paul Poiret, Jeanne Lanvin e Yves Saint Laurent, tutti soggiogati dalla modernità dei costumi tradizionali russi, entrati prepotentemente sulla scena parigina tra il 1906 e il 1914 con i Balletti russi di Diaghilev. A emergere è la sintesi di due modelli: gli abiti della borghesia, che si rifanno all’Età dell’oro della storia russa, e il costume rustico, rievocatore di fantasticherie sulla società contadina dei primordi.

Tre pezzi sono degni di nota: una striscia di seta con ricami della seconda metà dell’Ottocento, acquisita dal barone de Baye – archeologo, scrittore e viaggiatore –, che nel 1909 aveva stretto amicizia con la principessa Tenicheva, fondatrice di un centro di arte e artigianato a Talachkino, e di un museo di arte popolare a Smolensk, in quell’area allora considerata come «pre-Oriente»; un vestito di lino realizzato da Poiret servendosi di una tovaglia a motivi geometrici portata dalla Russia nel 1911 e l’abito Toutankhamon (1923) di Lanvin, che – a dispetto del nome – con il suo taglio tubolare e le sue decorazioni geometriche rievoca le camicie tradizionali russe con maniche ricamate (in mostra anche lo splendido album di disegni riferiti a questo modello). L’imperialismo russo ha condotto i paesi vicini ad affermare la specificità delle loro culture e la mostra evidenzia il ruolo svolto dai costumi popolari nella costruzione e nella difesa delle identità nazionali dell’Estonia, della Finlandia e dell’Ucraina.

I creatori contemporanei dei paesi frontalieri della Russia continuano a rivisitare le tradizioni, approccio ancora più significativo nel contesto dell’attuale guerra in Ucraina, dove – come sottolinea Calafat nel catalogo –, è in atto una razzia delle collezioni etnografiche. La collezione di cappotti Longing For Sleep di Marit Ilison, ispirata alla novella di Tchekhov La voglia di dormire e imperniata sull’utilizzo delle coperte in lana sovietiche degli anni settanta e ottanta, trasmette un tocco poetico, non estraneo in realtà a differenti scorci dell’esposizione, concepita con sensibilità oltre che con piglio moderno. Immancabile la carrellata di costumi regionali, che in Francia si impongono fin dal XVIII secolo per contrastare la moda della corte in voga nella capitale. Stupefacenti, in questo senso, i corpetti di lana e velluto ricamato della Bretagna (1900-1920), e la loro interpretazione da parte di Jean Paul Gaultier nella collezione autunno-inverno Paris-Brest del 2015-’16.

Nella seconda sezione della mostra, incentrata sugli abiti quali veicoli di «segni» sociali e metafore dei rituali di passaggio, ritroviamo ancora un vestito emblematico di Sorbier, che ricicla e stravolge pezzi di stoffa di provenienza ed epoche diverse per cucire La Grande Ivresse de Paul Fort (2014-’15), un omaggio ai versi del poeta simbolista ma anche alla storia del costume. Il percorso, denso ma non opprimente grazie all’allestimento «arioso», si chiude con un focus sulle camicie della Romania, alle quali viene riservata un’installazione dinamica e sinuosa come un volo. Con questa «prodezza» finale, le curatrici hanno voluto attirare l’attenzione sulla necessità di proteggere un patrimonio che rischia di scomparire, malgrado i numerosi esperimenti di sublimazione di questo capo tradizionale dell’Est portati avanti da prestigiose firme della moda.