Fra il 1931 e il 1933 la missione etnografica Dakar-Gibuti attraversa da un lato all’altro il continente nero, con l’obiettivo di documentare le tradizioni che – proprio per effetto della colonizzazione – cominciano a vacillare. Guidata da Marcel Griaule (diventerà di culto il suo libro Dieu d’eau), la spedizione torna con oltre tremila oggetti, la più grossa «raccolta» etnografica realizzata dalla Francia: si tratta di una missione scientifica ufficiale, decisa e finanziata dalle autorità, ma i metodi sconfinano nel saccheggio.

Nel suo famoso L’Afrique fantôme, lo scrittore Michel Leiris racconta come nel settembre 1931, nel villaggio di Dyabougou, in Mali, ha – letteralmente – rubato da una casa-santuario un Boli, un feticcio magico: non certo l’unico furto compiuto da lui e da altri durante la Dakar-Gibuti. Leiris non nasconde al lettore la sua consapevolezza di avere commesso un’azione abbietta: e nel ’34 la pubblicazione del libro segna l’inizio della discussione sulle pratiche della raccolta etnografica, un dibattito da cui si è arrivati a quello odierno sulla restituzione degli oggetti frutto del dominio coloniale conservati nei musei occidentali.

Nel suo famoso L’Afrique fantôme, lo scrittore Michel Leiris racconta come nel settembre 1931, nel villaggio di Dyabougou, in Mali, ha – letteralmente – rubato da una casa-santuario un Boli, un feticcio magico: non certo l’unico furto compiuto da lui e da altri durante la Dakar-Gibuti. Leiris non nasconde al lettore la sua consapevolezza di avere commesso un’azione abbietta

L’EPISODIO di cui Leiris fu protagonista è lo spunto simbolico intorno al quale ruota Le vol du Boli, uno spettacolo fra musica, teatro, danza e video firmato da Damon Albarn e dal regista mauritaniano Abderrahmane Sissako, che, presentato nell’autunno 2020 allo Châtelet e presto sospeso per la seconda ondata del Covid, è stato ora opportunamente riproposto (repliche fino all’8 maggio). A partire dall’inizio del nuovo millennio, il leader dei Blur ha stabilito un intenso rapporto con la musica e il continente africani: dalla sua collaborazione con la ong Oxfam è nato nel 2002 l’album Mali Music; nel 2006 Albarn ha sviluppato il progetto Africa Express, che da Bamako ha viaggiato in Congo, Nigeria, Etiopia e Sudafrica; nel 2013, all’epoca dell’invasione del nord del Mali da parte delle milizie jihadiste (e musicofobe), ha registrato in Mali con un collettivo di musicisti locali ed europei; ed è stato con il batterista Tony Allen nei The Good, The Bad & The Queen.

LA PASSIONE per l’Africa lo ha spinto a proporre a Sissako – noto per i suoi film, e alla sua prima esperienza di regia teatrale – di allestire un’opera che rendesse omaggio al continente. Sissako ha subito pensato ad un lavoro con un profilo politico, e la direzione dello Châtelet si è assunta il rischio e gli ha dato carta bianca. Sissako ha creato il libretto e la drammaturgia, assieme a Charles Castella, e Albarn ha curato le musiche: nel buio, sul fondo del palco, un gruppo di una dozzina di elementi, con musicisti maliani (Baba Sissoko, tama e ngoni, Mamadou Diabaté, kora, Lansiné Kouyaté, balafon) e altri strumentisti africani ed europei; in scena anche come attori in diversi ruoli la cantante maliana Fatoumata Diawara e Baba Sissoko.

IL FURTO del Boli rappresenta le ingiustizie che sono state perpetrate nei confronti dell’Africa: un’Africa nella quale, nel tredicesimo secolo, poco dopo la Magna Carta in Europa, viene scritta la Carta del Mandé, uno dei primi testi a sancire i diritti fondamentali dell’uomo e a mettere in discussione la schiavitù, promulgata da Soundjata Keita, il sovrano illuminato che unifica l’enorme impero del Mali intorno alla cultura mandinga. Ma poi arriva la tratta degli schiavi, il dominio coloniale, il neocolonialismo: c’è una violenza spoliatrice che percorre tutte queste fasi, e gli schiavi che si gettano dalle navi negriere per suicidarsi sono inghiottiti da un’acqua in cui nuotano telefoni cellulari e orsacchiotti dei migranti annegati di oggi.

INTERESSANTE anche che un prestigioso teatro parigino faccia riflettere su un’altra grande istituzione culturale della capitale. Lo Châtelet è Accanto alla Senna, sulla Rive Droite; il Boli di Leiris si trova dentro una teca di vetro al Musée du quai Branly, lungo la Senna, sulla Rive Gauche, qualche chilometro più in là: è una forma zoomorfa, un aggregato di argilla, foglie, ossa, piume e altri materiali, coperto da una crosta nera prodotta dal sangue delle offerte sacrificali, e era la sede di una forza spirituale potente e da trattare con cautela, utilizzata per combattere influssi negativi e produrre effetti come l’arrivo della pioggia.

Abderramane Sissako stigmatizza che il museo continui ad esporre questo che è il più famoso dei Boli – e che nel 2015 lo abbia esposto anche in una mostra dedicata a Leiris – senza fare riferimento alle circostanze del furto. Nell’ultima scena dello spettacolo, il Boli è nella teca al museo, guardato da un sorvegliante di origine africana: che, significativamente, è lo stesso attore che all’inizio ha interpretato il re dell’impero del Mali. Un re spossessato per un oggetto privato del suo senso.