Le grandi manovre continuano nei corridoi del potere, a Bruxelles e negli Stati membri, per trovare la formula magica che metterà tutti d’accordo sui nomi per le grandi cariche dell’Unione europea.

A cominciare da quello del futuro presidente della Commissione – che otterrà il voto a doppia maggioranza (assoluta al Parlamento europeo, 376 voti come minimo; qualificata al Consiglio, 16 su 28, che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione).

Il prossimo appuntamento cruciale è il Consiglio europeo del 20 e 21 giugno, ma i tempi potrebbero essere più lunghi, anche se il nuovo Parlamento europeo si riunisce il 2 luglio (e dovrà intanto scegliersi un presidente), mentre la Commissione è in carica fino al 31 ottobre.

L’ultima uscita è stata di Emmanuel Macron, in un’intervista alla Rts (radio-tv svizzera), ai margini della cerimonia per i 100 anni dell’Organizzazione internazionale del Lavoro a Ginevra. «Serve una persona forte che sappia incarnare i valori della Ue» alla testa della Commissione, ha detto Macron. Angela Merkel? «Non mi impegno» per lei, a cui sono legato da «una grande amicizia», ma «se lo volesse la sosterrei».

Il nome di Merkel era già stato fatto anche per la presidenza del Consiglio, per la successione del polacco Donald Tusk. Ma Merkel sostiene la procedura dello Spitzenkandidat, cioè una pratica che deriva da un’interpretazione rigida dei Trattati, secondo cui il Consiglio nomina il presidente della Commissione «tenendo conto dei risultati elettorali» delle europee. Alle europee il Ppe è arrivato in testa e lo Spitzenkandidat è il tedesco Manfred Weber.

La francese Nathalie Loiseau, capolista En Marche che ora punta a diventare capogruppo dei centristi (ex Alde, che potrebbero chiamarsi Ace, Alliance of citizens of Europe), ha liquidato Weber in modo molto poco diplomatico (anche se è una diplomatica di carriera): lo ha definito in privato «un ectoplasma». È noto che non piace a Macron e ad altri, perché non è mai stato primo ministro né ministro, non ha carisma né una storia che lo metta sullo stesso piano per discutere con i grandi del mondo (Jean-Claude Juncker, era stato primo ministro e ministro).

Macron gioca su vari tasti, ha tirato fuori Merkel ma, in accordo con lo spagnolo Pedro Sanchez, pensa anche al socialdemocratico olandese Frans Timmermans (ora vice-presidente, ed è questo il suo principale difetto, ma potrebbe ripiegare sulla successione di Mogherini come Mr. Pesc).

In corsa c’è sempre la danese liberal-radicale Margrethe Verstager, ora commissaria alla Concorrenza, che ha un buon bilancio ed è donna (sulle quattro nomine Ue, Bce esclusa, l’ideale per molti sarebbe due uomini e due donne). È anche girato il nome di Christine Lagarde, ora a capo dell’Fmi. La Francia conserva la cartuccia Michel Barnier, ora negoziatore del Brexit, che è Ppe, ma non sgradito ai centristi e ai Verdi.

Al Parlamento europeo, difatti, il vecchio equilibrio da Grosse Koalition Ppe-S&D non funziona più e c’è bisogno dei voti verdi e/o del centro. L’equilibrio tra paesi, forze politiche, nord-sud, est-ovest, di genere sarà completato con la successione di Mario Draghi alla Bce, a ottobre.

L’Italia sembra tagliata fuori dalle grandi manovre, ma ha tutto l’interesse a che la Germania abbia la Commissione o il Consiglio, per evitare che Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, vada alla Bce.

In questo frangente di rischio procedura di infrazione per l’Italia, solo Francia e Spagna hanno teso la mano, mentre tutto il nord insiste che le regole vanno rispettate, da tutti.