«Per me venire in Italia significa realizzare i miei sogni. Sono scappata dall’Eritrea per le gravi violazioni dei diritti umani: non c’è libertà di espressione, il servizio militare è a tempo indeterminato, non siamo sicuri per il nostro futuro. Le persone hanno paura di parlare, non mi sentivo libera».

Quella di Yohanna, 23 anni, è una storia come tante. È nata a Addis Abeba da genitori eritrei ma, appena iniziato il conflitto con l’Etiopia, la sua famiglia è stata rispedita a Asmara. Lei aveva due anni. Due decenni dopo, riaperti (momentaneamente) i confini, è scappata con i suoi due fratelli più piccoli. Lo racconta mentre è in partenza per l’Italia, grazie all’unico corridoio umanitario africano, organizzato da Nazioni unite, Caritas, Sant’Egidio e Gandhi Charity. Insieme a loro, altri 68 rifugiati (la maggior parte eritrei, ma anche tre yemeniti e un sudsudanese). «Noi andremo a Aosta – aggiunge Yohanna –. Voglio lavorare e continuare gli studi da avvocato, occuparmi di giustizia e diritti umani. Mi piacerebbe tornare a casa, un giorno».

 

 

L’ETIOPIA È IL SECONDO PAESE africano per popolazione dopo la Nigeria, ma anche il secondo per numero di rifugiati dopo l’Uganda. Gli ultimi dati dell’Unhcr fotografano 905.831 richiedenti asilo, soprattutto eritrei. Il motivo è la guerra combattuta dal 1998 al 2000, che ha causato la morte di quasi 100 mila persone. Gli accordi di pace di Algeri hanno messo fine al conflitto militare quasi vent’anni fa, ma la situazione non si è risolta. Anzi, il conflitto armato si è trasformato in una guerra fredda. In questo scenario, l’attore principale è Isaias Afewerki, che in tutto questo tempo è stato il volto del regime dittatoriale in Eritrea. Nemmeno uno spiffero di democrazia (non si è mai nemmeno votato), in compenso l’introduzione di un servizio militare illimitato per tutti i cittadini eritrei (maschi e femmine) tra i 18 e i 50 anni. Tutti spediti a proteggere il confine con l’Etiopia.

LA SITUAZIONE È CAMBIATA nell’aprile 2018, quando in Etiopia il presidente Abiy Ahmed Ali ha teso la mano a Afewerki, aprendo alla cessione dei territori attorno alla località simbolo di Badme. Gesto imposto dall’EEBC (Ethiopia Eritrea Boundary Commission) subito dopo la fine della guerra, ma mai compiuto dagli etiopici. Questo passaggio ha permesso di voltare pagina: confini riaperti nell’estate 2018 e accordo di pace siglato a Jedda, a sottolineare l’interesse geostrategico saudita nella regione del Corno d’Africa.

La libera circolazione tra i due Paesi ha però fatto da innesco per la diaspora di migliaia di eritrei, determinati a sfuggire al servizio militare permanente e alla dittatura. Una parentesi breve, dato che il 26 dicembre 2018 l’Eritrea ha richiuso unilateralmente tutti i confini, spaventata dall’esodo di massa. Chi è riuscito a scappare fa come Semhar. Cameriera di un albergo a Scirè, divide in due lo stipendio: una parte la spedisce ai parenti rimasti ad Asmara, l’altra metà la conserva per poter andare in Europa. Magari affidandosi ai trafficanti, in mancanza di visto.

Nella regione del Tigrai al confine (minato) con l’Eritrea, ci sono quattro campi con circa 70 mila rifugiati. Arrivano mediamente 300 profughi al giorno. Nel campo di Adi Arush ci sono oltre 15 mila persone, ben oltre la capacità di accoglienza. Questo eccessivo afflusso ha portato alla costruzione di baracche in pietra, lamiera e legna. Sono le nuove case degli ultimi arrivati, appena fuori dal perimetro. Il 63% è rappresentato da minori non accompagnati.

 

 

LE CONDIZIONI IGIENICHE sono pessime, ogni persona può fare affidamento più o meno su 15 litri d’acqua al giorno. Comunque, «sempre meglio dell’Eritrea – raccontano Jemal e Yusef, due ventenni scappati da Asmara qualche mese fa -. Nelle strade, nei luoghi pubblici e nelle scuole non si parla del governo. C’è tanta paura». Paura che non li ha ancora abbandonati: «Potrebbero esserci spie eritree anche qui». Come non mancano i trafficanti di esseri umani, infiltrati che offrono la possibilità di entrare in Italia partendo dalla Libia, per 5-6 mila dollari a persona.

L’elemento che accomuna tutti i rifugiati eritrei è il motivo della fuga: si scappa soprattutto per non restare intrappolati nel servizio militare. C’è chi è riuscito a scappare dopo 25 anni nell’esercito, e racconta di averne passati due in carcere per essersi sposato senza permesso, in segreto. Punito per aver disertato, senza poi poter assistere alla nascita della prima figlia o al funerale della madre.

 

 

NONOSTANTE LA SITUAZIONE sia tutt’altro che risolta, il 10 dicembre il presidente etiope Abiy Ahmed Ali riceverà a Oslo il premio Nobel per la Pace. C’è ancora molto da fare, ma il riconoscimento è così motivato dalla commissione: «Per i suoi sforzi nel raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per le sue iniziative decisive per risolvere i conflitti lungo il confine con l’Eritrea». In effetti, la pace tra i due Paesi è stato l’avvenimento del 2018 per quel che riguarda la politica africana.

 

foto Afp

 

Ahmed appartiene all’etnia oromo, il gruppo etnico maggioritario dello Stato ma marginalizzato da decenni. Nato da padre musulmano e da madre cristiana, parla le tre lingue maggiormente diffuse nel Paese: oromo, aramaico e tigrino. Ad Addis Abeba il suo volto si trova ovunque, dai manifesti per strada ai santini nei taxi. Il motivo? L’aver riportato al centro della discussione la riconciliazione nazionale, ma anche il rilascio di prigionieri politici e la legalizzazione dei gruppi di opposizione, a lungo etichettati come terroristici. Insomma, tutto l’opposto di Afewerki, ignorato dalla commissione del Nobel.

Riconoscimento a Ahmed a parte, la sensazione è che però tutto sia rimasto bloccato allo stadio embrionale, quello delle buone intenzioni. Sia sul versante etiopico, sia su quello eritreo. Se Afewerki ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo in Eritrea, così da non disperdere il potere concentrato nelle sue mani, Ahmed Ali deve confrontarsi con i problemi nel suo Paese in vista delle elezioni nazionali del 2020. Con le difficoltà derivanti da una coalizione di governo instabile, con i diffusi disordini etnici e con diversi altri nodi da sciogliere. In sostanza, la sensazione è che la questione Eritrea sia passata in secondo piano nella lista delle sue priorità.

ANCHE LA COMUNITÀ internazionale sembra ormai aver distolto l’attenzione. Per esempio, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti non sono interessati dai dettagli dell’accordo di pace. L’Europa pensa più alla gestione dei migranti e non si sforza di esercitare pressioni sull’Eritrea affinché si passi quantomeno a una riforma del servizio nazionale. Senza l’impegno di tutti gli attori, il regime continuerà a vessare gli eritrei, costringendoli a rischiare la vita per scappare in Libia e attraversare il Mediterraneo.