Nel 2007, Greenpeace e l’European Renewable Energy Council elaborarono lo studio-proposta globale \Energy(R)Evolution|. Per l’Africa, la (r)evolution prevedeva un forte aumento della quota di rinnovabili e dell’efficienza, sostituzione della biomassa tradizionale (legna da ardere, legata alla fatica delle donne e all’inquinamento indoor che fa molte vittime), la riduzione delle emissioni climalteranti pro capite, da 0,9 a 0,6 tonnellate di Co2 – e nei paesi Ocse da 15,6 a 3.

E OGGI? Alla vigilia del vertice Italia-Africa, il think tank italiano per il clima Ecco ha elaborato il documento «Il focus italiano sull’Africa: opportunità e rischi del piano Mattei». L’attuale paradigma diplomatico e finanziario tra Italia e paesi africani sembra disegnato per favorire l’obiettivo tradizionale (accentuato dalla guerra in Ucraina) dell’accesso ai combustibili fossili. Ma se Italia, Unione europea e G7 volessero davvero inaugurare una nuova strategia, inclusiva, sostenibile e lungimirante, occorrerebbe «superare narrative energetiche legate a tradizionali concetti sulla sicurezza energetica» (nuovi investimenti negli idrocarburi come proiezione italiana in Africa non sono necessari, anzi sono ormai un rischio economico e finanziario).
Basta anche con la retorica secondo cui i combustibili fossili porterebbero sviluppo economico e sociale ai paesi africani; data l’alta volatilità dei mercati internazionali, anche per loro «investire in oil&gas è sempre più rischioso», tanto più se si lega la sostenibilità del debito nazionale a introiti da progetti fossili.

L’AFRICA, sottolinea lo studio, è una candidata naturale alla transizione energetica, visto che «dispone di circa il 60% a livello mondiale di tutte le aree idonee alla produzione di elettricità da fotovoltaico, oltre ad ampie zone costiere oceaniche ideali per l’energia eolica, bacini fluviali per l’idroelettricità e, soprattutto nella valle del Rift, un grande potenziale geotermico».

Tutto ciò ha finora ricevuto pochi fondi rispetto ai progetti sul gas. Lo scorso ottobre, al primo Vertice africano sul clima, i governi del continente hanno chiesto un sostegno globale per quintuplicare la capacità installata di energia rinnovabile.

Reindirizzando i fondi sulle rinnovabili si otterrebbero maggiore stabilità economica, più posti di lavoro locali, esternalità positive a livello climatico. Chi insiste sulle politiche migratorie ci pensi su: massicci spostamenti di popolazione sono indotti da eventi estremi e dall’insicurezza alimentare e idrica.

VANESSA NATAKE, attivista climatica ugandese, alla vigilia della Cop28 scriveva sul Guardian: «Solo il 2% degli investimenti nelle rinnovabili va in Africa. Non abbiamo anche noi diritto a un futuro rinnovabile?» La «sete di gas africano da parte dei paesi ricchi», con le pesanti contaminazioni ambientali che ne derivano (la «maledizione delle risorse»), «spingerà il nostro continente nell’angolo della morente industria delle fonti fossili? O potremo noi guidare il mondo verso un futuro sicuro e pulito?»

Ecco sottolinea anche la disponibilità africana di materie prime critiche come cobalto, manganese e metalli del gruppo platino, minerali fondamentali per le batterie e le tecnologie dell’idrogeno. Qui però si apre lo spinoso capitolo dell’estrattivismo finalizzato anche all’altrui transizione, al centro del dossier A Just(ice) Transition is a Post-Extractive Transition (2019), di War on Want con la rete globale Yes To Life, No To Mining.
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