Si combatte ancora nel nord est della Siria, nonostante il proclamato cessate il fuoco siglato da Russia e Turchia a Sochi lo scorso 22 ottobre. Eppure l’attenzione globale (eccezion fatta per movimenti e società civili, nel fine settimana scesi in piazza in tante capitali europee) è calata.

A risvegliarla ci pensa il presidente turco Erdogan, non ancora soddisfatto dal riconoscimento dell’occupazione turca di un corridoio di 120 km dentro il Rojava, da Tal Abyad a Ras al Ain. Ieri ha mandato avanti il suo ministro degli Interni, il falco Suleiman Soylu, a minacciare di nuovo l’Europa: «Rimanderemo i membri dell’Isis nei loro paesi, anche se gli è stata revocata la cittadinanza».

Si parlerebbe, secondo Ankara di circa 1.200 foreign fighters dello Stato Islamico detenuti nelle prigioni turche, di cui 287 (45 turchi e 242 di 19 diverse nazionalità) catturati durante l’operazione «Fonte di pace» con cui la Turchia ha invaso il nord est della Siria il 9 ottobre scorso.

Di per sé non è un’affermazione campata in aria, rimpatriare i miliziani stranieri dell’Isis. Iraq docet, verrebbe da dire, visto che Baghdad da mesi porta avanti processi affatto equi contro miliziani e loro familiari, soprattutto donne, condannati in cinque minuti alla pena capitale. Alle autorità irachene alcuni governo, in primis quello francese, hanno promesso denaro sonante pur di tenerseli.

Ma Erdogan omette una serie di elementi. In primo luogo il ruolo di facilitatore che Ankara ha avuto per anni nel far transitare e nell’armare Daesh, come dimostrato da reportage giornalisti che sono costati all’ex direttore del quotidiano Cumhuriyet Can Dundar mesi di prigione e l’esilio. In secondo luogo non si capisce bene chi siano: secondo Soylu si tratta di 1.200 miliziani entrati in Turchia, lì catturati e poi spediti in centri per il rimpatrio (di cui buona parte turchi e non stranieri).

Trattamento diverso da quello che sembrerebbe riservato ai miliziani ancora in Siria: i bombardamenti turchi hanno provocato l’evasione di centinaia di miliziani e loro familiari dal centro di detenzione di Ain Issa, gestito dalle Forze democratiche siriane (Sdf), guidate dai curdi, mentre – secondo fonti dell’amministrazione Usa a Foreign Policy – le milizie islamiste alleate della Turchia avrebbero deliberatamente liberato prigionieri dell’Isis dalle carceri curde.

«Secondo l’Amministrazione autonoma del Rojava 785 affiliati all’Isis sono scappati – ci spiega il Rojava Information Center – Tra questi belgi e francesi. Alcuni si sono uniti alle milizie islamiste: sono di più quelli passati con altre milizie che quelli ricatturati. Abbiamo un database di oltre 40 individui basato su ricerche locali e fonti di intelligence che lo dimostrano. A questi potremmo aggiungerne altri cinque».

Un database in cui sono raccolti nomi, luoghi di provenienza, fonti che attestano il loro passaggio ad altre milizie, il luogo attuale di «attività» e il ruolo. Molti sono stati reclutati durante l’offensiva e la successiva occupazione del cantone curdo di Afrin, tra gennaio e aprile 2018. Altri in questo periodo, sotto «Fonte di pace».

Questi quelli identificati, ma probabilmente si tratta di una stima per difetto (l’Osservatorio siriano per i diritti umani, ong basata a Londra e parte del fronte di opposizione al presidente siriano Assad, parla di almeno 150 «migrazioni»). In ogni caso a oggi sono le Sdf che controllano i campi di detenzione di miliziani dell’Isis nel nord est siriano, ad eccezione di Ain Issa, in mano turca, dove sono però detenuti soprattutto familiari tra cui le note «spose» Lisa Smith, irlandese, e Tooba Gondal, britannica.

Intanto, tra una minaccia di Erdogan e l’altra, nel Rojava la guerra prosegue. Domenica un medico birmano dell’ong Free Burma Rangers, Zau Seng, è stato ucciso a Tel Temer dall’artiglieria turca che ha colpito un’ambulanza. Le Sdf hanno respinto attacchi a est di Ain Issa.