«I giorni in cui non ero preso dal lavoro, ero preso dalla fame». Non siamo in una pagina qualsiasi di Chiedi alla polvere, in cui Arturo Bandini – alter-ego di John Fante – si dimena a Bunker Hill tra sogni di grandezza e fanciulle messicane dalle fattezze indie, con le huarachas sfilacciate. O, ancora, in un cantiere edile troneggiato dall’austero Geremio, protagonista di Cristo fra i muratori e padre dello scrittore operaio Pietro Di Donato. «Trascinavo questo mio povero corpo da un ristorante all’altro, non come cliente, ma come servitore: lo portavo in miseria da un hotel all’altro. A volte erano le poesie che mi consumavano i pensieri, muovendosi come un esercito di formiche nel mio cervello oppure divorandomi come tanti vermi». È il quindicesimo capitolo de Il primo dio, romanzo autobiografico incompiuto di Emanuel Carnevali, pubblicato in Italia nel 1978 da Adelphi in un’edizione – a cura della sorella acquisita dell’autore, Maria Pia Carnevali – che comprende anche poesie scelte, racconti e scritti critici.

Carnevali, all’anagrafe Manuel, nato a Firenze nel 1897 (di un anno più giovane di Eugenio Montale), era sbarcato sedicenne a Ellis Island, New York, il 5 aprile 1914, senza un soldo e senza la benché minima nozione della lingua inglese, per sfuggire al travagliato passato familiare e all’ingombrante figura del padre Tullio. «Manolo» – come si faceva chiamare – è dunque un emigrato: esattamente come i genitori di Pietro Di Donato, arrivati in New Jersey da Taranta Peligna qualche anno prima, e come il babbo di John Fante, Nick, indimenticabile beone della Confraternita dell’uva, stanziatosi a Denver e poi in California da Torricella Peligna.

Lungo le sterminate avenues newyorkesi, tra i deludenti grattacieli («enormi scatole»), Emanuel si dimostra un tipetto abbastanza vivace e convulso, uno che non rimane certo con le mani in mano: lavapiatti, inserviente in drogheria, spalatore di cumoli di neve, addetto a lavori di pulizia. E non solo: «Raccogliere cicche per strada non fu certo la cosa più spregevole a cui mi ridussi». Amatore insaziabile, licenziato sempre per qualche intemperanza, vive in condizioni di assoluta povertà. All’improvviso arriva per lui il salto mortale di molti seguaci dell’American dream: entra furiosamente in contatto con Harriet Monroe, fondatrice e direttrice di «Poetry», che accompagna l’esordio letterario di Carnevali, il quale tra il ’19 e il ’20 è persino condirettore della rivista. Si lega così a Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon, diventando a tutti gli effetti un poeta imagista, meno artificioso e cuspidale dei suoi maestri.

Con Finché Dio ci vede (a cura di Daniele Gigli, Edizioni Ares, pp. 232, € 18,00) abbiamo ora una larga prova dell’esperienza poetica di Carnevali, spalmata lungo il corso della sua esistenza: il collected è suddiviso, infatti, in tre sezioni con ventinove testi «americani», venticinque liriche inedite e trentuno «italiane» (la scrittura originale è, in ogni caso, in inglese). In appendice al libro c’è un articolo risalente al 1919, «un’invettiva violenta e appassionata sul valore della poesia e della sua carnalità», che si conclude con l’elogio del «luogo comune» (cruciale in Carnevali) e con versi limpidamente dinamitardi: «Ho ricevuto uno stupido, stupidissimo messaggio dal mio cuore. / (Pure, chissà dove sta?). Diceva: “Spegni il fuoco che c’è in me o / darò fuoco al mondo”». Secondo Gigli, lo stile di «Em» si muove «sul crinale tra l’adesione al mondo così com’è e la nostalgia di un mondo più vero, di un eden mai vissuto ma fortissimamente presentito». Emblema di una simile wilderness è la ricerca della big beauty, in qualche modo dannunziano-papiniana, intravista appena: «Vagamente, so / che questa – // che questa è la grande bellezza / che rimbomba. / La mia povera anima reclama / un’altra bellezza, / silvana, senza parole» (Vagamente, so).

Fallito il matrimonio con Emilia Valenza, originaria del Piemonte e sposata nel 1917, incomincia la discesa agli inferi di questo maudit italoamericano: l’assidua frequentazione dei sobborghi, la contrazione della sifilide con il ricovero a Chicago e a Duluth (la città di Bob Dylan); un nuovo ricovero nel 1922 al St. Luke’s Hospital per via di un’encefalite letargica e il ritorno a Bologna (sono in tutto otto gli inverni trascorsi negli Stati Uniti).

Il «terzo tempo» della vita di Carnevali non è meno infelice: il ’31 è l’ultimo anno in cui riesce a comporre qualcosa perché la malattia si aggrava sempre di più e nel ’36 è trasferito a Roma in cura secondo il «medicamento bulgaro» che peggiorerà il suo stato di salute. Chiuso in una clinica per malattie nervose e mentali ancora a Bologna, muore l’11 gennaio del 1942, soffocato da un torso di pane.

Come riassumere i tratti salienti dell’opera di Carnevali? In un passaggio dell’autobiografia di William Carlos Williams (1967) ecco apparire, come un fulmine, il nostro rimbaldiano poeta: «Era diritto, magro, con una bella testa di giovane, dall’intelligenza penetrante – ovviamente un’anima perduta». È proprio in quest’ultima, amara notazione che va ravvisata la sua contrastiva e disorientata tensione all’innocenza, precorritrice di tanta letteratura beat. Nel Primo dio non a caso Emanuel osservava: «Cristo non ha mai cessato d’essere immenso, per me, e penso che il Vangelo sia il libro più bello che sia mai stato scritto. (…) La religione ha sempre torto, Cristo ha sempre ragione, anche quando parla in chiave minore del Regno dei Cieli». Poi, la pynchoniana condizione del beggar, l’accattone, il diseredato che erra senza meta nei larghi paesaggi americani, si ritrova nel poemetto Il giorno d’estate – Mattino: «Ma vagare / disoccupato / senza fame / di niente! // Ascoltami, strada! / Le tue parole mi siano un sussurro delicato». Persino dietro ai motivi sentimentali nelle liriche di Carnevali si riaccende l’interrogativo esistenziale. Così nel finale di Chanson de Blackboulé: «Oggi ho di nuovo messo a nudo il cielo e l’ho trovato / più freddo e più nuovo che mai, lì sotto. / Non aspetto risposta, né ho niente / da chiedere, niente / da dire, se non ciò che sai e che io so, / ciò che fino / alla fine dei giorni / avrà un significato e / uno solo / e nessun significato / e tutti i significati e / il / significato». Nel saggio posto a suggello del Primo dio, Luigi Ballerini evidenziava il «raggiungimento del divino» attraverso un’«epifania di vita potenziale»: al pari di Orfeo, Carnevali tenta di agguantare «in senso immanentistico» il Dio metamorfico riassorbito nelle cose. Solo in tale guisa acquistano maggiore consistenza certi momenti aforismatici, fintamente impressionistici, tipo Tregua: «Queste ragazzine stanno ridendo: / va tutto bene».

Nell’ultimo periodo i toni della poesia di Carnevali si fanno sempre più rarefatti e di un surrealismo immediato: «Pioggia infinitamente graziosa (…) // dovrei porre la tua origine più in alto, e molto, / più presso a un vecchio Dio che bagna / i piedi nella tua freschezza. // Fili di seta con cui una nuvola principessa / cuce un abito a Dio» (Castelli – Chiacchiere mentre piove). L’impulso passionale si sta rastremando nell’effusione del ricordo (particolarmente associato alla madre, Osservazioni – Brevi: «Mia madre è una stella nella memoria: / quando tutto è buio / risplende») e in una quiete agognata, oltre il dolore: «Volevo maledire i miei occhi encefalitici, / ma non maledissi nulla, perché il mattino / era bello e avevo pace nel cuore» (Castelli sulla terra – Le montagne). Qui l’assenso, seppur gnostico, è ormai totale: «Ammiro Dio – che finisce ogni cosa» (Quasi un Dio).