«Perché Elvis è diventato “Elvis”? Perché aveva un grande manager che lo trattava come una scimmia in gabbia». Questo scambio, tra il giornalista Bryan Gumbel e Jerry Lee Lewis nel documentario di Ethan Coen Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind (a Cannes Classics) è la storia di Elvis. Baz Luhrmann torna a Cannes (dove il suo esordio, Ballroom – Gara di ballo, aveva fatto furore a mezzanotte nel 1992; e dove Moulin Rouge ha trionfalmente aperto il festival nel 2001) con un kolossal di due ore e quaranta su Elvis Presley – caleidoscopico, coloratissimo e spavaldamente più ambizioso di recenti biopic musicali come Rocketman e Bohemian Rhapsody. Con il trentenne attore/cantante americano Austin Robert Butler nella parte di «the king».
La narrazione di Elvis, il film di Luhrmann, è affidata al manager di Presley (a cui allude Jerry Lee Lewis) dagli inizi fino alla morte (1977), Tom Parker – che nella realtà non era un colonnello e non si chiamava Parker, ma Van Kuijik, ed era immigrato illegalmente dall’Olanda. Interpretato da Tom Hanks quasi irriconoscibile dietro al make-up che gli deforma il volto e alle prostetics che lo rendono grassissimo, Parker è vecchio e sfinito, alla soglia della tomba (morì nel 1997), quando lo incontriamo. Alcuni, dice, vagando per i corridoi deserti di un ospedale, sostengono che sono stato io a uccidere Elvis. Ma non è vero. Il salto nel tempo rivela Elvis bambino, in Mississippi (i suoi si trasferirono a Memphis quando aveva 13 anni), catturato come per ipnosi dalla musica black che usciva con uguale forza da chiese e bordelli. «Il tuo è un dono di Dio» gli dice la madre, la maggior sostenitrice. E, con Dio dalla sua parte, Elvis Presley si accinge a un frontale con il Sud razzista e bigotto anni Cinquanta.

CANTA COME UN NERO ma è bianco – Parker non crede alle sue orecchie, e alla sua fortuna, quando lo scopre con l’istinto esperto per i freaks di un imbonitore da circo itinerante come quelli di Nightmare Alley. Il segreto, ci dice confidenzialmente, sta in quel qualcosa di proibito che pochissimi hanno. E che Elvis possedeva in dosi massicce. Make-up da signorina, la camicia di pizzo nera, giacca e pantaloni rosa forte, alla sua prima apparizione live, Elvis manda le ragazzine in estasi come la sua di fronte agli inni pentecostali. Luhrmann piazza la macchina ad altezza del bacino dello scandalo. Strappato alle cure amorevoli di Sam Phillips e della leggendaria etichetta di musicista black Sun Records, in nome di un contratto nazionale con la Rca, entro breve Elvis finisce nelle grinfie di Parker «in esclusiva», un contratto da cui cercherà invano di liberarsi per tutta la vita. Il ritmo di Elvis echeggia la velocità fulminea con cui il suo protagonista bruciò le tappe del successo. Tra la sessualità esibita e quella sua musica così sfrontatamente black, Luhrmann racconta Elvis come un concentrato esplosivo, un assaggio delle rivoluzioni dei Sixties, che viene però dall’hinterland americano, dal suo cuore più reazionario, non dalle coste liberal. Il grande unificatore. In altre parole, una bomba.

ll segreto, ci dice confidenzialmente, sta in quel qualcosa di proibito che pochissimi hanno. E che Elvis possedeva in dosi massicce. Make-up da signorina, la camicia di pizzo nera, giacca e pantaloni rosa forte, alla sua prima apparizione live, Elvis manda le ragazzine in estasi

QUANDO UNA COMBRICCOLA di politici segregazionisti locali minaccia di buttarlo in prigione, «il colonnello» cerca di mediare e lo manda in tv tutto ripulito, noiosissimo. I fan si ribellano e lui scappa a cercare conforto da B.B. King e tra gli amici di Beale Street, la via del blues, dove intanto sta facendo prodezze un giovanissimo Little Richard. La dicotomia tra l’Elvis «per famiglie», una fabbrica di miliardi di dollari, abilmente operata dal manager burattinaio genio del merchandising, con quartiere generale a Graceland, il cui prato sembra una concessionaria di Cadillac, e quello non addomesticabile, volgare, ribelle, che ha un rapporto immediato, viscerale con il pubblico, sostiene l’asse narrativo della seconda parte del film, che tocca brevemente i due anni in una base della Germania (un altro degli stratagemmi di Parker per rifargli l’immagine), la carriera hollywoodiana mai veramente decollata e poi confluisce a Las Vegas, il palcoscenico finale, sui cui Elvis che sogna tour internazionali come i Beatles e i Rolling Stones, rimane intrappolato come Bill Murray in Groundhog Day – mentre i tempi e la musica lo superano.