Elvis Sabin Ngaïbino, classe 1985, è tra i pionieri del cinema in Repubblica Centrafricana. Un Paese dove realizzare un film è ancora una grande sfida, non sempre favorita dal governo locale. Il suo primo documentario, Makongo (2020), incentrato su due pigmei che vogliono aprire una scuola nel proprio villaggio, è stato premiato a Cinéma du Reel. Il suo secondo lavoro Le Fardeau è stato presentato a Milano, a Filmmaker Festival, dopo la première a Idfa.

Cosa l’ha spinta a realizzare questo film?

Principalmente il fatto che in Africa in generale e nella Repubblica Centrafricana in particolare ci sono molte persone affette dall’Aids che vivono nel silenzio, che non possono parlare di questa malattia anche alle persone più prossime, e che muoiono spesso senza aiuti. Tutto questo perché l’Aids nel mio Paese è considerato come qualcosa di cui vergognarsi, i malati sono stigmatizzati dai religiosi che la reputano una punizione divina. Per questo ho voluto realizzare un film che mostra tale realtà. Rodrigue è mio cugino, appena ha saputo di avere contratto il virus me lo ha detto subito chiedendomi però di mantenere il segreto. Quando ho iniziato a lavorare al progetto ho cercato i personaggi andando in giro per le chiese, ma non era semplice. In quel periodo ho parlato a Rodrigue, che nel frattempo era diventato pastore della mia idea: mettere al centro del film una coppia sieropositiva. Allora lui mi ha detto: perché non parli di me? Io ti do il permesso. E lo stesso è avvenuto con sua moglie.

La redazione consiglia:
«Nous Étudiants!», gli studenti cercano futuroCosa rappresenta la religione per il suo Paese?

Molte cose, è ciò che permette alle persone di essere in contatto, in comunione con Dio. Significa spesso la soluzione ai problemi dei Centrafricani. Il nostro è un Paese molto religioso e rappresentando la salvezza, c’è questo legame importante tra religione e malattia.

Qual è la situazione per i registi in Repubblica Centrafricana? Che tipo di difficoltà ha incontrato?

Circa due decenni fa è stato realizzato il primo film di finzione, Le silence de la forêt di Didier Ouénagaré e Bassek Ba Kobhio, anche se non è centrafricano al 100%. Dal 2017 con l’arrivo degli Ateliers Varan è emersa una nuova generazione di registi di cui io stesso faccio parte, insieme cerchiamo di portare avanti il cinema nel nostro Paese il quale è stato finora praticamente inesistente. Da allora sono usciti molti film, documentari in particolare, che sono stati proiettati in tanti luoghi dall’Europa all’Africa, possiamo dire quindi che qualcosa si sta muovendo. Altri iniziano ora a lavorare, a realizzare dei progetti; la situazione è ancora tutta in divenire, c’è una battaglia da combattere e noi lo stiamo facendo, affinché ci sia una trasmissione che permetta ai giovani registi di emergere. Filmare in Repubblica Centrafricana è una questione piuttosto delicata, serve l’autorizzazione del Ministero delle arti che sorveglia tutto. Se osiamo denunciare alcune situazioni, il film può essere censurato come è successo a Nous, Étudiants! di Rafiki Fariala. Il governo pensava volessimo demonizzarli, aizzando gli studenti contro di loro mentre non è certo così, volevamo solo mostrare una realtà per quello che è.