Ieri, alla camera dei deputati, il presidente dell’ufficio del Garante dei dati personali Antonello Soro ha pronunciato la relazione annuale sul lavoro svolto dall’Autorità. Efficace e in gran parte condivisibile. Ed è anche l’ultima della serie, visto che il mandato finirà il prossimo 19 giugno.

Alla conclusione del discorso di presentazione del rapporto 2018 si è levato un applauso lungo e insistito, a dimostrazione dell’apprezzamento verso l’impegno di questi anni (di Soro e del collegio) e – forse – in risposta alla sgradevole sortita del vice-premier Di Maio che recentemente brandì la spada contro l’authority dopo la multa alla piattaforma Rousseau.

Va detto che delle tre istituzioni di garanzia quella sulla privacy si è rivelata la più puntuale, in grado di immergersi dentro un universo digitale in perenne ebollizione.

Il tema della riservatezza ha cambiato segno da tempo, divenendo ormai un capitolo chiave per l’inveramento della democrazia nell’età del capitalismo della sorveglianza e dell’«algocrazia»: il sesto potere descritto dal felice volume di Bauman e Lyon (2014).

La dittatura degli algoritmi, metodo di calcolo ossessivo con la progressione dell’intelligenza artificiale, porta con sé l’abnorme mercato dei dati personali, dei profili ricavati dall’«Internet delle cose» e dalla navigazione nel mare dei social. Con effetti di condizionamento commerciale e di pressione politica.

Il caso di Facebook-Cambridge Analytica è verosimilmente solo la punta dell’iceberg. La relazione evoca il principio della «trasparenza algoritmica», un requisito essenziale di ogni discorso che intenda governare e non subire l’impeto del cambiamento. Guai al determinismo tecnologico, mentre la persona deve tornare al centro di ogni cosa. Soro cita acutamente Federico Caffè sulla necessità di ostacolare il sopravvento dei «numeri sugli uomini».

È una lotta di egemonia, giustamente riappare Antonio Gramsci, di cui già osserviamo l’incarnazione nella cyber-guerriglia tra Cina e Stati uniti che passa proprio per il controllo dei Big Data e della potenza di calcolo.
Il diritto alla privacy è universale, un baluardo indispensabile contro le degenerazioni autoritarie o il populismo digitale, come lo nomina Alessandro Dal Lago (2017).

Soro passa in rassegna un po’ tutti i temi sensibili: dal controllo biometrico nella pubblica amministrazione, all’occhio delle telecamere sui lavoratori preteso dal Jobs Act , alla pratica orrenda di diffusione della vita sessuale (revenge porn), all’anomalia italiana della conservazione per ben sei anni del traffico telefonico e telematico contro la giurisprudenza della Corte di giustizia del Lussemburgo, al discutibile ricorso previsto dalle recenti normative italiane del «trojan» (cavallo di Troia) a fini investigativi. Fino alla questione delle questioni che ha attraversato il mandato, vale a dire il «Datagate».

Uno spunto di discussione: la comprensibile attenzione ai rischi dell’uso indiscriminato delle intercettazioni nei processi non può, però, mai limitare il sacrosanto diritto di cronaca. Meglio chiarire ancora.

La relazione sottolinea come sia l’Europa lo spazio naturale per interagire positivamente con il groviglio di contraddizioni entrate prepotentemente in scena. Anzi. Proprio il Regolamento dell’Unione del 2016 è un riferimento attualissimo e non per caso il congresso degli Usa e lo stesso patron di Facebook Mark Zuckerberg lo evocano , credendoci o meno, come la «linea generale». Quella a cui si è ispirata la condotta, persino anticipando i testi di Bruxelles, dell’ufficio del Garante.

Antonello Soro ha salutato molto commosso un folto pubblico, che già lo rimpiange.