Elly Schlein: una svolta, circondata da molti «ma»
Commenti Siamo sicuri che si sia votato solo per eleggere la segretaria di un partito «di elettori e di iscritti» o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle destre e al loro governo?
Commenti Siamo sicuri che si sia votato solo per eleggere la segretaria di un partito «di elettori e di iscritti» o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle destre e al loro governo?
Schlein, Landini, Conte: una foto di gruppo diventata una icona sullo sfondo della solatia giornata che ha salutato la grande manifestazione antifascista di Firenze, carica di significati densi e attualissimi. Tre volti, tre figure che potrebbero rappresentare un possibile schieramento d’opposizione che si rapporta a una dimensione sociale e, a sua volta, una proposta di coalizione sociale, annunciata ma fin qui trascurata, che riprende fiato e corpo in relazione con una dimensione politica senza confusione di ruoli. Eppure ci sono molti «ma» che ci separano da un simile wishful thinking. E i«ma» stanno soprattutto sul versante Schlein nella sua qualità di ultima arrivata senza che ce ne accorgessimo – come si è autodefinita. In effetti l’esito dei gazebo è stato per i più, una sorpresa.
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Schlein, la pericolosa bolscevica che non ama il Jobs actChe però, a guardar bene, deriva più da una nostra ottica sbagliata che non da una straordinaria performance della nuova segretaria. È come se avessimo introiettato il fatto che dopo che le precedenti primarie avevano sempre confermato il dato uscente dal voto «interno», così sarebbe successo anche stavolta. In realtà avremmo dovuto stupirci del contrario, cioè del fatto che non fosse accaduto già da prima. Non ci mancavano gli elementi per essere più avvertiti. Infatti, – lo ha scritto Antonio Floridia su queste pagine e in un suo recentissimo libro – il modello originario con cui è nato il Pd, oltre alla indeterminatezza ideale, politica e sociale, comprendeva anche il carattere del tutto indefinito dei confini della nuova organizzazione. Lo statuto, approvato il 16/2/2008 definiva il Pd come un partito «costituito da elettori e da iscritti». Lo stesso ordine con cui i due soggetti vengono nominati non é casuale visto che è stata ripetuto senza modifiche nelle successive versioni statutarie, compresa quella del 2021 che appare in Gazzetta Ufficiale. Ovviamente chiunque può attribuirsi la qualifica di elettore, essendo questa del tutto inverificabile, dal momento che per la nostra Costituzione il voto è libero e segreto. E non c’è Albo che tenga.
Se poi si aggiunge la continua diminuzione degli iscritti negli anni – non corretta dal passaggio da 80mila a 150mila durante quest’ultimo percorso congressuale -; l’assenza di prerogative decisionali dell’iscritto rispetto al comune, vero o presunto, elettore, e soprattutto il fatto che tra gli iscritti al Pd e il suo elettorato non esiste un rapporto quantitativo misurabile, la sorpresa per l’esito delle cosiddette primarie si ridimensiona non poco. Non c’è bisogno di immaginare disegni machiavellici dietro quel voto. Può valere l’interpretazione più favorevole: esiste una sinistra diffusa non inquadrata in organizzazioni partitiche, ma non ancora definitivamente sfiduciata dalle cattive prove della politica e del Pd in particolare.
Piuttosto serve chiedersi quale significato avesse quel voto. Siamo sicuri che si sia votato solo per eleggere la segretaria di un partito «di elettori e di iscritti» o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle destre e al loro governo? Osservando la campagna di Elly Schlein e le sue successive dichiarazioni, emerge più questa seconda figura. Che poi possano sovrapporsi è ovvio, ma qui è importante cogliere il senso prevalente di quel voto.
Attraverso questa lente andrebbe quindi in primo luogo misurata l’adeguatezza di Elly Schlein. E qui i «ma» si moltiplicano. Finora i suoi atti pubblici appaiono come risposte necessarie alle mosse del governo e delle destre.
Cosa indispensabile, ma non sufficiente. Costruire un’opposizione significa in primo luogo, ce lo ripeteva Stefano Rodotà, definire un’agenda alternativa a quella del governo e non soltanto giocare di rimessa. Si potrebbe obiettare: verrà col tempo.
Ma c’è una cosa che deve esserci subito, perché è premessa di tutto il resto.
Tra le sue proposte annunciate figurano reddito di cittadinanza, salario minimo, il no all’autonomia differenziata e pare anche una patrimoniale che colpisca le ricchezze. Ma sul versante della pace, già relegato a uno tra i punti finali del programma per le primarie, non vi è una parola convincente. Anche nella sua recente intervista al New York Times Schlein dichiara che il suo partito è un «sostenitore totale» di Kiev, rivendicando il merito di avere votato per l’invio di armi. L’iniziativa diplomatica e di popolo per un cessate il fuoco e una conferenza di pace viene poi evocata come una foglia di fico, per nascondere che l’escalation in corso e il riarmo generale muovono da tempo in direzione opposta. Non si tratta di un vuoto che si possa riempire strada facendo, ma di una mancanza di senso, soprattutto perché il tempo che abbiamo per impedire la generalizzazione del conflitto, comprendendo anche l’uso del nucleare, è maledettamente breve. Le tante manifestazioni di Europe for peace del 25 febbraio lo hanno gridato chiaramente. Guai non ascoltarle.
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