«Non ha idea di quante ingiurie antisemite riceva ogni giorno. Quando sono ospite della tv o vengo intervistata dai giornali ne compaiono a decine sulle mail della trasmissione o sui siti dell’estrema destra». Psicanalista e storica, allieva di Jacques Lacan, docente all’École normale supérieure di Parigi, già iscritta al Pcf e attiva in favore dell’indipendenza algerina, Élisabeth Roudinesco si è occupata a più riprese del tema dell’antisemitismo. Lo ha fatto, tra le sue numerose opere, nel libro intervista con Jacques Deridda, Quale domani? (Bollati Boringhieri, 2004) e nel recente Ritorno sulla questione ebraica (Mimesis, 2017).

Nel suo ultimo libro spiega come esistano da sempre due «France», quella che ha «inventato» l’antisemitismo con Drumont, «l’affaire Dreyfus», Vichy e quella che l’ha combattuto con Zola, Sartre, la Resistenza. Oggi come descriverebbe la situazione, di fronte al riemergere di retoriche e violenze antisemite?
Direi che la situazione è grave, ma non tanto a causa di una nuova emergenza, quanto piuttosto per la costanza del fenomeno: più che riemergere, l’antisemitismo non è mai scomparso dal panorama politico e culturale francese. La vera novità è che si sta assistendo un po’ ovunque in Europa, e non solo nel mio paese, alla crescita poderosa dell’estrema destra, della cui cultura l’odio verso gli ebrei è una componente fondamentale. Così, in Francia non ci si limita più ad osservare che Céline era un grande scrittore, peccato che poi sia diventato antisemita, ma si tesse apertamente l’elogio degli intellettuali collaborazionisti quando non si fa l’apologia del regime di Vichy, considerato agli occhi di molti commentatori addirittura «più accettabile» rispetto al comunismo. Libri che vanno per la maggiore descrivono «la decadenza» della Francia democratica mentre evocano «il buon governo» del maresciallo Pétain. Emerge nuovamente nello spazio pubblico l’antisemitismo degli opinionisti, degli intellettuali, delle élite.

Allo stesso tempo sembra crescere un altro fenomeno, specie tra i giovani delle banlieue, che fa eco ai conflitti del Medioriente e che è stato anche all’origine di molti casi di violenza: si tratta di un «nuovo antisemitismo»?
Io non lo credo. Ad un certo punto si è cominciato a dire: «Il vecchio antisemitismo non c’è più, è stato definitivamente rimpiazzato da quello che emana dagli ambienti del fondamentalismo islamico». Ma in realtà non è vero. L’antisemitismo è sempre lo stesso. Non solo gli islamisti hanno ripreso gli stessi argomenti dell’antisemitismo europeo del XIX secolo, ma il negazionismo sull’Olocausto, vero e proprio «grande delirio devastatore» come lo definisco nel libro, è diffuso in modo ampio nel mondo arabo. L’armamentario ideologico antisemita dell’Occidente ha assunto una nuova vitalità tra gli islamisti, e nei paesi del Medioriente, alla luce del conflitto con Israele e, per questa via, ha finito per emergere poi in questa forma anche nelle società europee, attraverso la propaganda islamista.

Già molti anni fa lei stessa si è misurata personalmente con i primi segnali che andavano emergendo in tal senso. In quel caso si trattava dell’Algeria…
Nel 1967, poco più che ventenne mi sono trovata ad organizzare gli studi di francese di un gruppo di ragazzi quasi miei coetanei, avevano intorno ai 18 anni, destinati a diventare tecnici petroliferi in una scuola di Boumerdés, una località costiera dell’Algeria. Quando scoppiò la guerra dei Sei giorni – tra Israele, Egitto, Siria e Giordania -, le pareti delle classi si riempirono di svastiche. A differenza di altri insegnanti – eravamo tutti lì perché credevamo nello sviluppo di quel paese appena nato dalla lotta per l’indipendenza -, mi rifiutai di fare lezione dove erano stati tracciati i simboli nazisti. Volli invece discutere con i ragazzi e capire il perché di quel gesto. Scoprii così che in realtà sapevano poco della Shoah e di Hitler: si erano identificati con i nazisti, e quindi con gli antisemiti, perché avevano assimilato gli israeliani con gli ebrei «tout-court». L’antisemitismo si era iscritto nel loro inconscio e si riferiva all’ebreo in senso generale, non solo al nemico territoriale. Il rischio che in quel periodo andava emergendo nel mondo arabo era però che l’antisionismo diventasse il volano di un antisemitismo che non veniva chiamato col proprio nome. Oggi, con gli islamisti, le cose sono però più chiare: i temi che evocano per attaccare l’universalismo e l’eredità dei Lumi sono gli stessi dell’estrema destra occidentale.

Perciò, come valuta l’ipotesi avanzata dal presidente Macron sul varo di norme specifiche contro l’antisionismo che affianchino quelle contro l’antisemitismo?
Non credo assolutamente che servano nuove leggi. Si può facilmente smascherare il discorso antisemita anche se cerca di camuffarsi con altri termini o accenti. Più che altre norme, servirebbe un’analisi adeguata alla situazione odierna. Serve una legge per colpire la propaganda antisemita degli islamisti, la cui predicazione di odio fa sentire il suo effetto in molte periferie del paese? In realtà, no. Basta fare attenzione alle loro parole, alle retoriche che mettono in campo per rendersi conto che sono le stesse del vecchio antisemitismo fascista. Oggi si dice sempre più spesso «sionista» per dire in realtà «ebreo», «sporco sionista» non potendo più dire «sporco ebreo». Da un lato, il rischio di incorrere nei rigori della legislazione contro il razzismo ha spostato un po’ ovunque in Europa i termini del tradizionale discorso antisemita, dall’altro, la diffusione dell’islamismo, che rappresenta ormai una minaccia globale, ha finito per trasferire anche qui il lessico contro gli ebrei in uso in Medioriente.

La proposta di Macron fa eco a quanti pensano di vedere una certa «porosità» tra i due termini. Cosa ne pensa?
Si deve essere molto chiari perché il termine antisionismo rischia di ingenerare una grande confusione. Il sionismo è stato il movimento di emancipazione degli ebrei, una realtà per altro profondamente divisa al proprio interno, anche se quella maggioritaria era di ispirazione socialista, di cui non c’è più alcuna traccia nella realtà odierna di Israele, dominata da un governo di estrema destra. Ai suoi tempi, Freud era antisionista nel senso che era contrario alla nascita di uno stato ebraico in Palestina; molti religiosi ebrei sono antisionisti perché ritengono che l’indicazione della Terra promessa non possa venire che da Dio. Ma un conto è criticare la politica di Israele, un fatto ovviamente più che legittimo, e io sono la prima a farlo, altro è mettere in discussione il principio della sua esistenza: questo atteggiamento di negazione può autorizzare il passaggio dall’antisionismo all’antisemitismo, rendere possibile per questa via ciò che altrimenti si tenderebbe a celare.