«Questo è un momento storico. Per la prima volta, la Bosnia-Erzegovina ha due presidenti su tre che non appartengono a dei partiti etno-nazionalisti». Il leader del Partito socialdemocratico bosniaco, Nermin Nikšić, ha festeggiato così domenica sera l’annuncio dei primi risultati preliminari.

I bosniaci erano chiamati alle urne per scegliere i loro rappresentanti a livello nazionale, delle entità e dei cantoni, per un totale di 14 parlamenti e governi da eleggere in uno dei più complessi sistemi istituzionali al mondo.

L’entusiasmo di Nermin Nikšić è dovuto alla composizione della nuova presidenza tripartita bosniaca, formata da un bosgnacco (o bosniaco musulmano), un serbo e un croato, che rappresentano i tre «popoli costitutivi» come previsto dagli accordi di Dayton del 1995. Il nuovo trio è composto dal socialdemocratico bosniaco Denis Bećirović (che ha sconfitto l’eterno Bakir Izetbegović, in politica dai primi anni Duemila), dal progressista croato Željko Komsić (che ha battuto la nazionalista Borjana Krišto) e infine dalla nazionalista serba Željka Cvijanović, che sarà la prima donna presidente della Bosnia-Erzegovina.

L’ELEZIONE di una presidenza più moderata della precedente non significa però la fine della stagione dell’etno-nazionalismo in Bosnia-Erzegovina. Nella Republika Srpska (RS), l’entità a maggioranza serba del paese, Milorad Dodik – l’uomo forte della RS al potere dal 1998 e vicino a Putin – è riuscito a restare in sella, conquistando, anche se con uno scarto risicato, la carica di presidente dell’entità.

Inoltre, il peso delle forze nazionaliste potrà essere valutato nella sua interezza solo quando saranno formati tutti gli esecutivi ai vari livelli.

«Penso che si andrà verso una presidenza tripartita protocollare, politicamente meno importante di quella che era al potere fino ad ora», commenta l’analista Srdjan Puhalo, menzionando il fatto che Milorad Dodik, che oggi occupa la carica di membro serbo della presidenza tripartita, lascerà il suo posto alla fedelissima Željka Cvijanović. «Non vedo un superamento della politica nazionalista, ma un suo spostamento verso nuove arene, ancora da definire, che saranno i parlamenti e i governi dei cantoni, delle entità e dello Stato», prosegue Puhalo.

NELL’ATTESA DI CONOSCERE i risultati definitivi, un’altra grande novità ha marcato questa tornata elettorale. Nella sera di domenica, appena un’ora dopo la chiusura dei seggi, l’Alto rappresentante internazionale Christian Schmidt ha annunciato l’introduzione di una nuova legge elettorale, che influenzerà il modo in cui saranno formati i vari esecutivi.

Si tratta di uno dei temi che più hanno scosso la Bosnia-Erzegovina negli ultimi mesi (assieme al processo di secessione avviato e poi interrotto da Dodik) e su cui incombeva la decisione (inappellabile) dell’Alto rappresentante.

PERCHÉ UNA NUOVA LEGGE elettorale? Innanzitutto, va ricordato che da diversi anni i partiti bosniaci negoziano senza successo una riforma della legge elettorale.

Nella Federacija, l’entità croato-bosniaca, quest’impasse ha fatto sì che da quattro anni non si riesca a formare un governo. Nel suo intervento, domenica sera, Christian Schmidt ha dunque parlato di una misura indispensabile per la stabilità del Paese, ma è stato subito travolto dalle critiche.

«L’imposizione delle modifiche alla legge elettorale e alla costituzione da parte dell’Alto rappresentante è un atto ingiusto e autoritario. Un’ombra sulla festa democratica che hanno rappresentato le elezioni di domenica», afferma Adnan Ćerimagić, senior analyst all’European Stability Initiative.

L’accusa principale che è mossa a Schmidt è quella di aver ceduto alle richieste dei nazionalisti croati. La nuova legge elettorale cambia la modalità di formazione del governo della Federacija ed è stata subito accolta con favore dal primo ministro della Croazia, Andrej Plenković, mentre la Rappresentanza dell’Unione europea a Sarajevo ne ha preso le distanze, sottolineando che l’Alto rappresentante ha deciso «da solo».

«Per la nona volta dalla fine della guerra, la Bosnia-Erzegovina ha organizzato delle elezioni su tutto il suo territorio nazionale. Eppure, invece di parlare di questa democrazia che funziona, l’intervento di Schmidt dipinge un paese instabile, ingovernabile e ci allontana dall’Europa», conclude Ćerimagić.

La Bosnia-Erzegovina ha presentato la sua domanda di adesione all’Unione europea nel 2016, ma non ha ancora ricevuto lo status di paese candidato. Quest’estate si è vista scavalcare da Ucraina e Moldova e la notizia è stata accolta con grande rammarico nel paese.

Malgrado i suoi sforzi, la Bosnia continua a rimanere alle porte dell’Ue, in balia delle ingerenze dei suoi ingombranti vicini – Serbia e Croazia – e vittima di un’emorragia demografica che dal 2014 ha sottratto al paese più di 400mila cittadini.