Sulla sua candidatura alle presidenziali del 2018 pesa come un macigno la condanna in primo grado a 9 anni e 6 mesi per corruzione nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, ma che l’ex presidente Lula sia tutt’altro che rassegnato lo dimostra chiaramente l’iniziativa della carovana «Lula per il Brasile» che ha percorso, dal 17 agosto e fino al 5 settembre, 28 municipi del Nordest del Paese, sua storica roccaforte elettorale, con l’obiettivo di dialogare con i cittadini su un nuovo modello di sviluppo per il Paese. Ma anche con lo scopo di reagire a una condanna su cui gravano forti sospetti di accanimento giudiziario, se non altro perché del tutto funzionale all’obiettivo delle destre di impedire con ogni mezzo al fondatore del Pt di ricandidarsi alle elezioni presidenziali del 2018.

È INDUBBIO, in ogni caso, che su di lui continuino a scommettere, oltre al Partito dei Lavoratori, anche i movimenti sociali, convinti che Lula sia l’unico in grado di battere le destre e di riportare il Brasile sul cammino abbandonato in seguito al golpe parlamentare-giudiziario-mediatico contro Dilma Rousseff e, più in generale, «contro il Paese». Quel Paese che Lula, come ex presidente ha rivendicato con orgoglio, era uscito a unire intorno a un progetto di sviluppo economico con inclusione sociale, grazie a cui il Brasile aveva potuto realizzare un salto in avanti storico in termini di crescita produttiva, di creazione di posti di lavoro, di lotta alla povertà e di ampliamento di opportunità educative, liberando dalla miseria 35 milioni di persone.

È PROPRIO GRAZIE a tali conquiste, del resto, che il presidente operaio aveva terminato il suo mandato di 8 anni, nel 2010, con una popolarità intorno all’80%, quando opporsi a Lula, come aveva commentato all’epoca il giornalista messicano Raúl Zibechi, significava quasi «mettere in discussione la legge di gravità».
Non era però tutto oro quello che luccicava nel Brasile governato dal Pt, a cui, non a caso, il domenicano Frei Betto ha rimproverato di aver «afferrato il violino del potere con la mano sinistra per suonare con la destra», sacrificando i suoi simboli identitari: l’organizzazione della classe lavoratrice, l’etica in politica, la realizzazione di riforme strutturali.

Di fatto, il fenomeno politico legato al «presidente operaio» – a cui è stato pure dato un nome, lulismo – si è caratterizzato essenzialmente per il forte legame stabilito da Lula con quella parte maggioritaria della classe lavoratrice brasiliana priva di una coscienza di lotta di classe e della capacità di costruire dal basso le proprie forme di organizzazione, nonché per la decisione del presidente di percorrere il cammino dell’ortodossia economica, seguendo fedelmente le ricette neoliberiste in ambito macroeconomico, ma costruendo su tale cammino una politica di sostegno al potere di consumo delle fasce di basso reddito.

UNA POLITICA di profondi cambiamenti, ma realizzati senza alcuna reale redistribuzione della ricchezza, e indubbiamente favoriti da un contesto di sostenuta crescita economica – grazie all’alto prezzo delle materie prime sul mercato internazionale – di cui peraltro si sono avvantaggiati più di tutti i settori privati dell’industria e delle finanze.

NON SORPRENDE allora che sotto i governi del Pt si sia registrato un aggravamento del ruolo subalterno dell’economia brasiliana, con il Paese sempre più relegato alla condizione di esportatore di materie prime senza valore aggiunto, e ciò malgrado le potenzialità di fatto illimitate di un Paese ricchissimo di risorse minerarie strategiche, di biodiversità, di acqua e di terre fertili. E ancora peggio è andata sul fronte ambientale, rispetto a cui i governi prima di Lula e poi di Dilma hanno finito per considerare la preservazione degli ecosistemi come un intralcio allo sviluppo, puntando decisamente su agribusiness, megadighe, miniere a cielo aperto e sfruttamento del cosiddetto pre-sal, un enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane.

MA SE, DURANTE gli otto anni del governo Lula, gli alti prezzi delle materie prime avevano consentito comunque di assicurare benefici per tutti, ricchi e poveri, la successiva crisi economica ha imposto la necessità di scegliere quali interessi tutelare, se quelli di chi sta in basso o quelli di chi è al vertice della piramide. Ed è proprio con la necessità, divenuta prioritaria in tempi di crisi, di lanciare un’offensiva contro i diritti della classe lavoratrice – un compito che il Pt non era in grado di assolvere, considerando i suoi vincoli storici con i movimenti popolari – che si spiega l’esaurimento del Patto di convivenza stabilito nel 2002 tra il Partito dei Lavoratori e le classi dominanti, e, a seguire, il colpo di Stato contro Dilma Rousseff e la feroce restaurazione neoliberista del governo Temer.

IN QUESTO QUADRO, la carta lula sembra ancora convincere, forse in mancanza di meglio, i movimenti popolari, i quali sperano che, se il fondatore del Pt dovesse riconquistare il governo nel 2018, seguirebbe una strada diversa da quella dell’alleanza con settori della destra e dell’agroibusiness, operando una decisa – ma in realtà poco probabile – svolta a sinistra.