Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca. Pare così abbia detto Napoleone calcandosi sulla testa il 26 maggio 1805 la corona di re d’Italia. L’associazione viene in mente a leggere i racconti horror sulla riforma del premierato voluta dalla presidente del Consiglio. Intronizzata dagli elettori, per la verità da un modesto 15% di essi, sua cura fondamentale pare sia perpetuare la sua sistemazione.

In democrazia non usa: ma non importa. Perciò intende riscrivere le regole costituzionali a sua misura. Simili disegni di rado giungono a compimento. Qualcosa ne sa Matteo Renzi. Vedremo se stavolta governo e maggioranza saranno più accorti e fortunati. Sulle incongruenze del disegno autorevoli giuristi non hanno lesinato critiche.

Ma se nulla c’è da aggiungere, qualcosa va sottolineato: sulla prospettiva personalistica e monocratica che impronta la riforma. Che sarebbe anche un unicum nel paesaggio occidentale. Vi sono i casi di Ungheria e Polonia, ma per varie ragioni si prestano poco al confronto.

Posto che di premierati non ne esistono in giro (l’esperimento israeliano è durato pochissimo), il confronto più attendibile, con le cautela del caso, è col semipresidenzialismo francese.

Il premierato meloniano manterrebbe il presidente della Repubblica. La popolarità dell’attuale capo dello Stato sconsiglia un attacco diretto: meglio svuotarne i poteri e scegliersi poi un successore compiacente (adottando la stessa tattica per i futuri giudici costituzionali di nomina parlamentare e presidenziale).

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Ben diversamente in Francia il vertice indiscusso del sistema è il presidente della Repubblica e il capo del governo è unicamente il suo principale collaboratore. Salvo in caso di coabitazione. Resa meno probabile, ma non impossibile, dalla riforma costituzionale del 2000, che ha ridotto il mandato del presidente e ha sincronizzato la sua elezione con quella dell’Assemblea nazionale.

Neanche quest’ultima ha mai contato molto, mentre il Consiglio costituzionale è una Corte costituzionale molto depotenziata. A sua volta, la magistratura d’oltralpe non gode dell’indipendenza acquisita dalla magistratura italiana.

Quando nel 1958 de Gaulle varò la costituzione della Quinta Repubblica, infuriava la guerra di Algeria. Fu un tipico caso di «stato d’eccezione». Riproposto il leader carismatico, che già aveva salvato il paese, fu facile alleggerire i contrappesi istituzionali. Li compensavano quelli politici e sociali.

I partiti francesi non erano i partiti italiani, ma le culture politiche – specie quella comunista e socialista – erano rigogliose, c’erano possenti centrali sindacali e grandi giornali indipendenti. Mentre i sentimenti democratici erano stati rivitalizzati dall’esperienza dell’occupazione e della resistenza.

De Gaulle era un democratico parecchio sui generis, insofferente verso i partiti e il parlamento e a suo agio con gli alti funzionati e gli esperti, che erano stati i suoi sostenitori principali e gli autori della nuova costituzione. Ma aveva combattuto il fascismo e più tardi la sovversione di destra giunta dall’Algeria. L’autorità monocratica del presidente incontrava qualche limite anche da questo lato.

L’IDEA DI MELONI parrebbe quella di replicare finché possibile lo schema. Ma il confronto va fatto con la Quinta Repubblica di oggi, non di allora. In sessant’anni è cambiata. Il regime è rimasto monocratico, ma con meno contrappesi, almeno finché il diavolo (che al momento veste i panni del Rassemblement national) non ci mette la coda.

Tuttora il presidente può in mezz’ora licenziare il primo ministro o convocare nuove elezioni. Eppure, la sua autorità, in apparenza indiscussa, si è ritrovata in confusione.

L’agguerrita infrastruttura amministrativa che aveva sostenuto de Gaulle e i suoi successori si è offuscata: lo stesso Macron ha incoraggiato la sua contaminazione col settore privato. Mentre si sono disseccati partiti e culture politiche tradizionali e sono decaduti i sindacati.

La società civile ha a sua volta subito un rischioso ripiegamento comunitario. La pubblica opinione è infine sottoposta al martellamento dello tv commerciali, dove un imprenditore di destra come Bolloré detiene un solido predominio. Il ricorso alle maniere forti per contrastare il dissenso e affrontare i problemi sociali che affliggono il paese (immigrazione inclusa) è perciò divenuto la norma.

Ebbene, il confronto col premierato meloniano va fatto con tale modello. Che nei fatti si sta dimostrando obsoleto e rischioso.

Un punto essenziale da ricordare è che alle spalle di Meloni non c’è nemmeno l’eco dell’alta funzione pubblica che ha a lungo sorretto la Quinta Repubblica. C’è una confraternita di ostinati reduci del postfascismo, all’epoca del restyling finiano rabboniti con qualche poltrona ministeriale, ma rimasti in disparte e alfine rifiutatisi di farsi fagocitare da Forza Italia.

Affezionata alle proprie radici culturali, cementata da una frustrante militanza al margine, da relazioni parentali e amicali di lunghissima durata, da liturgie condivise, questa confraternita smania per prendersi la rivincita sulla Repubblica democratica e per propinare agli italiani la sua narrazione. Solo che la smania non rende lucidi – le gaffes piccole e grandi non si contano – e occorrerà qualche tempo per maturare più adeguate capacità di governo. Già qualche intellettuale e professionista è stato assoldato.

In Italia il soccorso ai vincitori vanta lunga tradizione. Ma non è detto che basti a sostenere una credibile autorità monocratica, in un paese, come tutti ormai troppo complicato per accoglierla.

Il ricorso alle maniere forti non solo è scontato, ma è già in corso. Tra i misteri da sciogliere: cosa accadrà quando il premier dovrà confrontarsi con le autorità monocratiche di venti regioni, rafforzate dall’autonomia differenziata. Ognuno ha il suo stile, ma l’azione di governo regionale gravita in gran parte sulla figura del presidente.

Le maniere forti, spesse volte, non sono frutto di volontà. Sono purtroppo un destino.