Per anni è stata solo ricordo famigliare, una specie di leggenda urbana, un fantasma della letteratura raccontato da Giacomo Debenedetti, adesso – finalmente – Elena Di Porto è uscita dall’oblio con tutta la sua forza, la sua rabbia, la sua iracondia. A raccontarne la storia è Gaetano Petraglia in La matta di piazza Giudia – storia e memoria dell’ebrea romana Elena Di Porto edito da Giuntina (pp. 220. euro 16).

ELENA HA SOLO 17 anni quando viene ricoverata al Santa Maria della Pietà – l’ospedale psichiatrico romano dove sarà rinchiusa altre tre volte – si sposa nel 1930, ha due figli e si separa dal marito. Tutto in pochi anni. Ama seguire gli incontri di boxe, fuma, va in bicicletta, frequenta le sale da biliardo e non sopporta i fascisti. Una irregolare.
Il bel libro di Petraglia racconta, grazie a un minuzioso lavoro d’archivio, le volte in cui viene denunciata per aver reagito ai soprusi quotidiani e meschini della milizia: per aver difeso un anziano lettore dell’Osservatore romano, per aver reagito con le mani alle avance di un miliziano correligionario, per aver accoltellato il marito all’osteria.
Seguita dallo stigma che accompagna la cosiddetta pazzia, Elena è ostaggio di una legge del 1904 che prevedeva l’internamento su indicazione di parenti, tutori, o chiunque altro, polizia compresa, anche «soggetti – scrive Petraglia – che pur non essendo affetti da veri e propri disturbi mentali potessero in qualche modo nuocere alla società attraverso atteggiamenti e comportamenti considerati antisociali e anormali».
Il fascismo utilizzò così anche gli ospedale psichiatrici per contenere e nascondere il dissenso. Elena invece, per strana e sconclusionata che fosse, matta non lo era: tanto che nel quaranta viene mandata al confino proprio nell’ambito dei provvedimenti disposti in vista dell’entrata in guerra. Quando – caduto il fascismo – Elena torna a Piazza Giudia, come a Roma si chiama Portico d’Ottavia, ha l’aura della combattente. E non è un caso probabilmente che la sera del 9 settembre del ’43, mentre a San Paolo civili e brandelli del Regio esercito tentano di arginare l’entrata delle truppe tedesche, si mette alla testa di un centinaio di ebrei romani che assalta due armerie. Dei cento ad essere fermata è proprio l’unica donna, Elena. Le armi vengono recuperate solo in parte, le altre vanno verosimilmente alla Resistenza che si stava organizzando.

È UNA VICENDA che potrebbe indicare nuove vie di ricerca: non si aveva fino ad ora notizia di un’azione collettiva degli ebrei italiani in quanto tali per e nella Resistenza. Si è detto fino ad ora che la partecipazione alla lotta antifascista sia stata individuale, risultato di percorsi politici o umani personali. Il drappello capeggiato da Elena apre invece un’altra prospettiva. Ma non basta: l’irregolare, l’iraconda Elena sembra che torni nel vecchio ghetto anche la sera del 15 ottobre avvisando disperata dell’imminente razzia nazista (con il nome di Celeste la ricorda De Benedetti in 16 ottobre 1943) ma ha lo stigma della matta e non le credono o non le vollero credere.

IL GIORNO DOPO, messi in salvo i figli, torna a Portico d’Ottavia, testimonianze ne ricordano il tentativo di aiutare i razziati. Angosciata, quando vede la cognata salire sui camion tedeschi con i figli, sale anche lei, vuole – ancora una volta – portare aiuto. Così, tra i 1022 deportati quel giorno c’era anche lei. Dei sedici che tornarono non fu lei l’unica donna. Di Elena si persero le tracce: immatricolazione ad Auschwitz dubbia, deceduta in luogo e data ignota. Resta la domanda straziante: sarebbe stato diverso se l’avessero creduta? Ma lei era pazza, era la matta di Piazza Giudia.