Elezioni presidenziali e parlamentari in pieno «stato di eccezione» oggi in El Salvador, con relativa sospensione delle garanzie costituzionali. E con il 42enne presidente Najib Bukele che si ripresenta violando il dettato costituzionale che ne vietava la ricandidatura.

DEL RESTO QUESTO PAESE è stato da sempre assai tormentato. Dal massacro di decine di migliaia di campesinos quasi un secolo fa, alle dittature militari, fino ai dodici anni di guerra civile fra oligarchia/esercito e guerriglia culminati con gli accordi di pace del 1992 che propiziarono una fragile democratizzazione del paese.

Con i sondaggi che lo danno oltre l’80% dei consensi, Bukele vincerà senza dover ricorrere neppure al ballottaggio. Affermatosi al primo turno nel 2019, si dedicò a scardinare del tutto il sistema bipartitico della destra di Arena (al potere fino al 2004) e dell’ex guerrigliero Frente Farabundo Martì (Fmln) che aveva governato gli ultimi 10 anni e tra le cui fila Bukele era stato eletto paradossalmente sindaco della capitale San Salvador (per poi venirne espulso). Due anni dopo il suo nuovo partito Nuevas Ideas otteneva i 2/3 dei deputati (la conferma è l’unica incertezza di oggi alle urne). Che gli hanno permesso di subordinare a sé, con un golpe istituzionale, anche il potere giudiziario.

 

Murale elettorale di Nayib Bukele a Mejicanos, un sobborgo di San Salvador (Ap)

 

 

Tutto si è giocato sul fenomeno delle maras, le bande giovanili importate dai figli degli emigranti rientrati dalla California ed espansesi in El Salvador dagli anni ’90 fino a controllare a suon di estorsioni le disperate periferie delle città. Arena non ebbe mai la volontà reale di controllarle, non interessando i quartieri benestanti. Mentre il Fmln, non potendo (senza maggioranza nel legislativo) varare riforme per ridurre disuguaglianze sociali e disoccupazione, alternò patteggiamenti a repressione.

ANCHE BUKELE ALL’INIZIO del suo mandato concordò una sorta di non belligeranza con le pandillas. Che abortì in un violento fine settimana del marzo 2022. Da allora decretò lo «stato di eccezione» (tuttora vigente) incarcerando a tutt’oggi 74mila giovani, molti innocenti, con arbitrarie procedure processuali. Certo col risultato di far crollare il tasso di omicidi da oltre 100 a soli 4 per centomila abitanti. Ma convertendo El Salvador nella nazione con più popolazione in carcere del pianeta (l’1,4%). Con le entità internazionali in difesa dei diritti umani a denunciare la politica securitaria di Bukele. Che invece riscuote grande simpatia in America Latina fra neopresidenti come Javier Milei in Argentina e Daniel Noboa in Ecuador.

Il sostegno interno è schizzato alle stelle, con i salvadoregni che si sentono ovviamente risollevati, seppur condannati a campare alla giornata in un paese dove l’economia informale supera il 60%. Ed è proprio sulle loro condizioni di vita che il presidente twittero non ha fatto nulla. Salvo l’illusoria quanto fallimentare scorciatoia del 2021 del dare corso legale (primo paese al mondo) al bitcoin, illudendosi che le rimesse familiari degli emigrati (che ammontano al 26% del pil) entrassero in quel circuito speculativo, convertendo il paese in un neoparadiso fiscale. Quando avrebbe dovuto invece introdurre finalmente qualche imposta diretta ai settori oligarchici che di tasse (a quelle latitudini) non ne hanno quasi mai pagate.

INSOMMA UN’AUTOCRAZIA millennial, persino negazionista, con Bukele che ha fatto abbattere un busto del Che Guevara e il monumento agli Accordi di Pace, da lui definiti «l’evento più ipocrita della nostra storia, per la glorificazione di un patto fra gli assassini del nostro popolo che poi si sono spartiti la torta». Vantandosi poi di non essere «né di destra né di sinistra, categorie nate ai tempi della Rivoluzione Francese».

Mentre i residui di opposizione politica (divisa) della società civile organizzata e dell’informazione indipendente vengono minacciati (e indotti a lasciare il paese).