Il presidente della giuria Spike Lee voleva tagliare corto: Palma d’oro subito saltando il noiosissimo cerimoniale di rito. E così ha fatto, davanti all’ammutolita platea,  rovinando una costosa festa di chiusura dell’edizione 74  che  sulle Marches aveva appena «esibito» star arrivare per l’occasione –  a cominciare da   Sharon Stone. Invano gli altri giurati  (Mati Diop, Maggie Gyllenaal, Jessica Hausner, Mélanie Laurent, Mylène Farmer, Tahar Rahim, Song Kang-ho, Kleber Mendoça Filho) hanno cercato di fermarlo: col microfono in mano Lee ha annunciato la vittoria di Titane. A quel punto  era davvero tutto finito perché tra le Palme  fastidiose questa è  da primato.

 Il Palmarès segue oscillando tra scelte  che premiano il cinema, nelle sua forma politica e nella sue declinazioni  più libere  come  l’ex-aequo tra Memoria di Apichatpong Weerasethakul e Il ginocchio di Ahed di Nadav Lapid,  il premio della regia a Leos Carax per la sua struggente favola pop  Annette. E il Gran premio della giuria a Scompartimento 6 di Juho Kuosmanen, una delle rivelazioni del concorso. Per cadere invece con l’ex-aequo a   Farhadi (abbonato ai premi in Croisette) e alla sua nuova e stucchevole variazione su il castigo e la colpa  declinata in A Hero.

E se  Renate Reisve   funziona nell’interpretazione della   sua millennial eterna in The Worst Person in The World  (in Italia sarà distribuito da Teodora),  meritavano moltissimo Sophie Marceau per  Tout s’est bien passé di Ozon,  Virginie  Efira per la sua spudorata Benedetta  e soprattutto Vicky Krieps, una scoperta di questo festival, protagonista di Bergman Island di Mia Hansen Love  – rispetto a a Caleb Landry Jones  migliore attoere in Nitram c’erano altre possibilità come  Avshalom Pollack nel film di Lapid.

 Il vero tonfo però è il premio alla sceneggiatura a Drive My Car, uno dei più bei titoli del concorso, per  invenzioni di messinscena  (per i dialoghi di sceneggiatura  perché non  Les Olympiades?).

Non si è mai d’accordo con i premi, è vero, ma questa Palma d’oro risuona di troppe imposizioni: si doveva premiare un film francese e prima ancora  si doveva premiare una regista, nell’edizione che della presenza «femminile» ha fatto il suo punto di vanto, dalla giuria a seguire  – che su ventiquattro titoli solo quattro sono  di registe è un dettaglio. Funziona così l’eguaglianza? 

 Perché non Hansen-Love allora? Perché il suo Bergman Island  non respira l’aria dei tempi o meglio li interroga ma non cerca di stupire come fa invece Julie Ducournau  in Titane, costruito millimetricamente per ammiccare all’ oggi, per rispondere a quelle che sono le coordinate di un cinema   ben sintonizzato con un’idea   del genere, dei corpi  che macina il passato – da Crash e Christine –  in modo da rendersi riconoscibile, di inserire quanto è al centro della discussione, gender, diversità, ma in modo talmente esplicito da risultare schematico.

L’idea di un «femminile» da premiare – manco fossimo alla festa della mamma – secondo i parametri del politicamente corretto è una stonatura. Il cinema sta da un’altra parte, oltre i generi.

Guardiamo Marco Bellocchio: il regista italiano è salito sul palco per ritirare la Palma d’oro alla carriera – «il regista deve avere coraggio» ha detto. E lui, nel film che ha presentato qui, Marx può aspettare, ne ha moltissimo: il coraggio di mettersi in discussione e di interrogare il cinema. Il resto appare uno  sterile esercizio di stile.