L’Africa che ci sta di fronte, come direbbe la storica tunisina Leila el Houssi, non ha pace. Non ne ha avuta certamente con la colonizzazione occidentale, cui sono seguiti regimi e dittature, non ce l’ha oggi a un decennio dalle primavere arabe. Anche la Tunisia della rivolta dei gelsomini, l’unica democrazia sopravvissuta a quella stagione di grandi speranze deluse, si sta sgretolando.

E’ in compagnia della confinante Libia, dove dopo la caduta di Gheddafi di stabilità e progresso non se ne vede neppure l’ombra, di un’Algeria che soffre ancora la fine di Bouteflika e l’uscita tortuosa da anni di piombo con migliaia e migliaia di morti, di un Egitto che Al Sisi tiene compresso con un regime repressivo e autocratico, di un’intera regione, il Sahel, che sembra sfuggire a ogni tentativo di controllo interno e internazionale – dal Chad al Mali – e dove l’Italia si sta infilando con la missione Takouba e una base militare in Niger.

La pandemia da Covid ha assestato un colpo micidiale ad alcuni di questi Paesi come Tunisia ed Egitto che con il blocco del turismo e degli investimenti stranieri si sono trovati a vivere ancora più isolati. La massima e in alcuni casi unica preoccupazione europea e occidentale è stato tentare accordi di “sicurezza” per limitare i flussi dei profughi.

In fondo è stato fatto lo stesso quando sulla scena sono comparsi i jihadisti dell’Isis e Paesi come la Tunisia hanno fornito, pescando tra le file dei disoccupati e dei disperati, circa settemila reclute al Califfato. Pochi nel 2011 si sono occupati, di cosa stava significando in Nordafrica il crollo di una Libia che dava lavoro a milioni di arabi della regione: centinaia di migliaia di egiziani e tunisini che facevano i pendolari nei cantieri del raìs libico si sono trovati senza lavoro. E in molti casi di emigrazione ne avevano già fatta non poca nei cantieri italiani, spagnoli, francesi, che si erano fermati con la crisi europea.

L’Africa che ci sta di fronte facciamo fatica a guardarla in faccia. Le rimesse dei migranti tenevano in piedi economie e famiglie: soltanto la Tunisia con la caduta del regime gheddafiano ha perso in un decennio 300 milioni di dollari l’anno, cifra non enorme in termini assoluti ma importantissima perché, al contrario di prestiti e aiuti internazionali, le rimesse finivano direttamente nelle tasche della gente e non in quelle di leadership incompetenti e corrotte.

Non è un caso che ancora adesso a tenere in piedi le famiglie tunisine, algerine, marocchine, egiziane, sudanesi e del Sahel siano i soldi dei migranti in Europa. E non è un caso che quando la Tunisia ha cominciato a morire e vacillare sotto i colpi della variante Delta i tunisini in Francia abbiamo inviato aiuti e soldi alle Ong locali per aggirare uno stato inefficiente. E per dirla con schiettezza in Francia gli specialisti tunisini di terapia intensiva sono il doppio di quanti se ne trovino nella stessa Tunisia. Poi ci vengono a dire di aiutarli a casa loro: sono loro che già ci aiutano a casa nostra.

In realtà in questo naufragio mediterraneo stanno sprofondando i migranti e interi Paesi cui chiediamo soltanto di frenare i flussi e di stare zitti e buoni mentre noi ci vacciniamo e prepariamo il rilancio con il Recovery Plan europeo. La ministra dell’Interno italiana Luciana Lamorgese e la commissaria europea per gli affari interni, Ylva Johansson, il mese scorso hanno incontrato i vertici di Tunisi promettendo più investimenti europei nel Paese nordafricano, a patto che questo fermi le partenze dei tunisini e faciliti i rimpatri. Promesse, promesse, in un Paese che anche a causa della pandemia era già nel baratro: il Pil della Tunisia ha registrato nel 2020 un calo record dell’8,8%, rispetto all’anno precedente, con la disoccupazione salita a oltre il 17%.

Ma noi europei siamo generosi. L’Unione europea è pronta ad aiutare questi Paesi, anche quelli del Sahel, ma in cambio vuole più controlli in campo migratorio. E con la missione militare Takouba tra Mali, Niger e Burkina Faso, appena approvata anche dal nostro Parlamento, andiamo certamente ad aiutare questi Paesi contro i jihadisti ma anche a sorvegliare cosa fanno per frenare le rotte dei migranti e tenerseli a casa loro. Quanto ad aiutarli economicamente ci penseremo magari dopo che gli abbiamo venduto un po’ di armi.

La democrazia non sprofonda da sola. Ha bisogno di una spinta. E non piccola. Oltre che politica e istituzionale, la crisi tunisina è economica: il Paese ha bisogno per non fallire di 7,2 miliardi di dollari di cui 5,8 sarebbero già impegnati per ripagare i debiti precedenti. Pericoloso, soprattutto, lo stallo nelle trattative con il Fondo monetario per ottenere un prestito da quattro miliardi di dollari, condizionato a riforme che nessun governo tunisino negli ultimi anni è stato in grado di accettare. Insomma una mano a strangolare un Paese siamo sempre pronti a darla.