C’era un luogo dove le ambizioni diplomatiche della Cina stavano trovando maggiore riscontro: il Medio oriente. Dopo aver favorito il riavvio delle relazioni tra Arabia saudita e Iran, Pechino mirava al bersaglio grosso: officiare la ripresa di un negoziato tra Israele e autorità palestinese.

L’ATTACCO DI HAMAS e la controffensiva di Tel Aviv stanno mettendo a dura prova quell’ambizione. Il governo cinese ha reagito sin da subito con una proposta chiara: la soluzione dei due stati e il riconoscimento di uno stato indipendente di Palestina. Non una sorpresa, visto che i rapporti tra il Partito comunista e l’autorità palestinese è di vecchia data. A seguire, è apparsa una condanna delle «azioni che danneggiano i civili», ma senza menzione esplicita di Hamas. «L’unica soluzione è il dialogo e la tutela delle legittime preoccupazioni di entrambe le parti», si ripete. Una formula utilizzata in modo incessante sulla guerra in Ucraina, in ottemperanza al principio olistico della sicurezza globale proposta da Xi Jinping con una serie di documenti teorici e programmatici.

La diplomazia cinese ha fatto un passo ulteriore: «Le azioni di Israele sono andate oltre l’ambito dell’autodifesa, dovrebbe cessare la punizione collettiva della popolazione di Gaza», ha scandito a più riprese il ministro degli Esteri Wang Yi durante i colloqui dei giorni scorsi, a partire da quello con l’omologo saudita Faisal bin Farhan Al Saud. «Il diritto all’autodifesa non deve essere esercitato a costo di vittime civili innocenti», ha ribadito al turco Hakan Fidan.

MOLTO SIGNIFICATIVO quanto detto all’iraniano Hossein Amir-Abdollahian: «La Cina sostiene i paesi islamici nel rafforzare l’unità e il coordinamento e nel parlare con una sola voce sulla questione palestinese». Secondo diversi analisti, la conseguenza più probabile del nuovo conflitto è il rallentamento del dialogo tra Israele e i paesi musulmani, con una potenziale divisione tra questi ultimi. Pechino ha tessuto con pazienza la sua tela in Medio oriente e non vuole vedersela disfare proprio dopo una serie di risultati rilevanti, tra cui gli accordi dello scorso dicembre a Riad al primo vertice Cina-paesi arabi e l’allargamento dei Brics ad Arabia saudita, Emirati e Iran.

Pechino ha coltivato nel tempo anche i rapporti con Israele, di cui è diventato il secondo partner commerciale. A giugno, Xi ha ricevuto Mahmoud Abbas. A luglio l’ambasciatore cinese in Israele ha visto Netanyahu, invitandolo a Pechino. Nei prossimi giorni, l’inviato speciale cinese per il Medio oriente Zhai Jun sarà in tour nella regione per spingere il negoziato. Sarebbero importanti eventuali scambi con Tel Aviv, dopo che la diplomazia israeliana non ha certo celato la delusione per la reazione cinese. Ad aggiungere tensione il ferimento di un funzionario dell’ambasciata israeliana, accoltellato a Pechino da un cittadino che il governo si è affrettato a identificare come «straniero».

MA LA CINA non ha parlato solo coi paesi arabi. Wang ha tenuto un colloquio anche col segretario di stato americano Antony Blinken. Richiami reciproci a «un ruolo costruttivo», con Washington che ha peraltro chiesto a Pechino di esercitare la propria influenza su Teheran per ridurre il pericolo di un allargamento del conflitto. Nonostante le due potenze sembrino schierate su posizioni contrapposte, fin qui la retorica conflittuale è rimasta per lo più confinata ai media, che parlano di posizione «non imparziale» degli Usa. Lo stesso Wang ha riconosciuto «che le relazioni bilaterali hanno mostrato uno slancio per arginare il declino e raggiungere la stabilizzazione». Il riferimento implicito è al probabile bilaterale Xi-Biden a San Francisco, a margine del summit Apec di novembre. Oggi, intanto, il leader cinese apre il terzo forum sulla Belt and Road Initiative, a 10 anni dal suo lancio. Presenti diversi leader internazionali. Tra gli altri: l’ungherese Viktor Orban, l’indonesiano Joko Widodo, le autorità talebane. E poi, soprattutto, Vladimir Putin.