Il 20 giugno, la multinazionale energetica francese Orano (ex Areva) ha annunciato la revoca del permesso di sfruttamento delle miniera di Imouraren, a 160 chilometri a nord di Agadez, per decisione della giunta nigerina guidata dal generale Abdourahamane Tiani.

SCOPERTA NEL 1966 e soprannominata «la miniera del futuro», Imouraren è considerata tra le miniere di uranio più grandi al mondo, con riserve stimate di 200mila tonnellate. Orano possedeva, attraverso la controllata Imouraren SA, il 63,52% delle quote e aveva ottenuto il permesso di sfruttamento nel 2009. Nel 2015 furono sospesi i lavori preliminari per il disastro di Fukushima e il conseguente calo dei prezzi dell’uranio a livello mondiale. I lavori di estrazione sarebbero, poi, dovuti cominciare nel 2028 dopo una fase di test portata avanti durante quest’anno. Si legge nel comunicato diffuso da Orano che infatti, il 4 giugno scorso, erano state «riaperte le infrastrutture per accogliere le squadre di cantiere e portare avanti i lavori».

Appena una settimana dopo, il ministero delle Miniere nigerine avvertiva che la licenza di sfruttamento di Imouraren sarebbe stata ritirata, e consegnata al demanio pubblico, se le attività non fossero iniziate entro un periodo di tre mesi, a partire dal 19 marzo scorso. Orano ha fatto sapere che intraprenderà le vie legali «davanti alle competenti giurisdizioni nazionali o internazionali».

LA REVOCA DEI PERMESSI di sfruttamento minerario arriva a poche settimane dalla fuga di notizie riportata da Bloomberg, secondo cui la compagnia nucleare di stato russa Rosatom era entrata in contatto con la giunta nigerina per acquisire le attività di estrazione di Orano. Ambizione che l’azienda ha negato.

Tuttavia il Niger, dal rovesciamento del presidente Mohamed Bazoum con il golpe del 26 luglio 2023 vive una fase di fermento. Come il Mali ad agosto 2022 e il Burkina Faso a febbraio 2023, il Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria guidato dal generale Tiani si era posto come obiettivo la smobilitazione dei 1.500 militari francesi presenti sul territorio. Ritiro che il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato a settembre e completatosi a dicembre, con annesso ritorno in patria dell’ambasciatore Sylvain Itté e del restante corpo diplomatico.

NELLO STESSO MESE, il passo indietro dal G5 Sahel, coalizione militare nata nel 2014 per contrastare la violenza jihadista, che vedeva tra gli altri membri: Burkina Faso, Mali, Ciad e Mauritania. Ad oggi, sono rimasti solo questi ultimi due, che si preparano a scioglierla.

Lo scorso gennaio, inoltre, le giunte di Niger, Mali e Burkina Faso hanno dichiarato congiuntamente la loro uscita dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas/Cedeao), accusata dai di essere «sotto l’influenza delle potenze straniere»: dopo il golpe nigerino, l’organizzazione aveva imposto pesanti sanzioni, revocate a febbraio, che avevano inasprito le sofferenze umanitarie nel paese.

Gli ultimi passi, si sono avuti con lo scioglimento – deciso «con effetto immediato» ad agosto 2023 – della cooperazione militare tra Niger e Usa, che vedrà la dipartita definitiva dei soldati entro il 15 settembre di quest’anno. Solo fino ad alcuni mesi fa, gli statunitensi si trovavano nella Base aérienne projetée 101 di Niamey con i francesi. Ora, anche se in complessi diversi, i loro nuovi vicini sono i russi.

A SORPRESA, non c’è stato invece alcun cambio di sede per i 250 militari italiani, che restano sul territorio (dal 2018) con la Missione bilaterale di supporto in Niger (MISIN). L’Italia che apparentemente si sta facendo portavoce degli interessi dei paesi africani, ora col Piano Mattei, ora tentando di coinvolgere i leader africani in consessi occidentali, sembrerebbe essere apprezzata dalla giunta del Niger.