Troppo vicino a noi per essere letto con la consapevolezza degli studi  critici che gli sono precipitati addosso, ma già abbastanza lontano e celebrato da non consentire più di avvicinarvisi con uno sguardo vergine, Rumore bianco, pubblicato da Don DeLillo nel 1985 e uscito in una prima traduzione italiana da Pironti nel 1987, è a pieno titolo, oggi, iscrivibile al filone postmoderno al quale venne da subito accostato, suscitando la ribellione dell’autore e di coloro che sentivano andargli stretta quella catalogazione. Essa implicava, invece, il riconoscimento di un certo carattere epifanico del romanzo, e si giustificava vuoi perché tutto vi appare già mediato dai precipitati di una informazione mass-mediatica che rende impossibile la pretesa di cogliere la realtà nella sua immediatezza fenomenica, vuoi perché il realismo di DeLillo è sempre già insidiato dal mistero che si nasconde dietro le apparenze; e questo agguato potenziale, questa minaccia, è intrinseca alla percezione di una realtà presentata sempre già oltre il suo grado zero.

Sul fronte della cronaca, la nube tossica che si sprigiona sul cielo di Blacksmith, la cittadina americana dove si svolge Rumore bianco, venne immediatamente associata alla fuga di sostanze chimiche da uno stabilimento della Union Carboide a Bhopal, in India, che nell’85 uccise circa 2.500 persone, rinforzando quella attribuzione a DeLillo di una sensibilità profetica, che sarebbe stata consacrata dalla copertina – imposta dall’autore per la pubblicazione in tutto il mondo – di Underworld (1997), dove una  croce si staglia sinistramente contro la sagoma delle Torri gemelle, traversate dal volo di un uccello a ali spiegate.

Sul fronte della critica, invece, la traduzione inglese, nel 1983, del saggio di Baudrillard, Simulacro e simulazione aveva ipnotizzato il mondo artistico newyorkese, stabilendo i presupposti per contagiare anche le interpretazioni di White Noise, e aprendo una sorta di spartiacque tra coloro che, come John Duvall, arrivarono a leggere nel romanzo poco più di una glossa alla società dei consumi, e quanti, come Paul Maltby, interpretarono DeLillo come un «umanista alla ricerca del sublime», un metafisico di ascendenze romantiche, devoto al potere di redenzione del linguaggio.

Quando Harold Bloom scrisse la sua introduzione al libro di saggi critici Don DeLillo’s White Noise (Chelsea House, 2003), il romanzo era alla sua trentunesima edizione: un oggetto di culto più che un best-seller. Ciò che giustifica, insieme alle opportunità commerciali offerte dal (pessimo) film che ne ha tratto Noah Baumbach, la terza edizione italiana del libro, che Einaudi ha fatto ritradurre a Federica Aceto, una veterana della prosa di DeLillo (Rumore bianco, pp.424,  € 21,00). Ne sono protagonisti Jack Gladney, docente di studi hitleriani presso il College-on-the Hill, che non sapendo il tedesco confessa di vivere «ai margini di un territorio di ampia vergogna», sua moglie Babette, «una donna di cospicue dimensioni», ossessionata dalla paura della morte, e la loro famiglia composta dai figli di lui e da quelli di lei avuti da precedenti matrimoni. Una terza presenza, quella di Murray Jay Siskind – ex giornalista sportivo, docente precario di icone viventi, poi di un corso sugli incidenti d’auto nella storia del cinema – è forse ancora più fondamentale alla veicolazione dei temi cari a DeLillo, che infatti gli affida uno sguardo capace di trascendere la visione retinica e avvolgere di un alone mistico i precipitati del consumismo. Coerentemente alla sua persino paradossale, comica spregiudicatezza, Murray accoglie con entusiasmo la dissoluzione di ogni residuo di aura, e anzi ne restaura eventualmente la presenza là dove meno si andrebbe a cercarla.

Nel corso di una celebre scena del romanzo, che ospita una gita al fienile «più fotografato d’America», Murray osserva come sia ormai impossibile catturare una visione di quel luogo a prescindere dalle immagini che ne sono state già diffuse: «Essere qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solo quello che vedono anche gli altri. Le migliaia di persone che sono state qui in passato, quelle che ci verranno in futuro… Un’esperienza religiosa, in un certo senso, come del resto lo è ogni forma di turismo». Frank Ventricchia, decano della critica che si è esercitata su DeLillo, ha letto in questa pagina una delle «scene primordiali» dello scrittore americano, trovandovi «un perfetto esempio di come le immagini abbiano soppiantato gli eventi nell’America contemporanea», e notando come il dissolversi dell’oggetto nella sua rappresentazione venga comunicato «non con la nostalgia per un mondo reale perduto ma con una certa gioia».

Ancora più prezioso è lo sguardo di Murray quando coglie gli interni fluorescenti del supermercato dove si svolgono le scene forse più emblematiche di Rumore bianco: sui banchi sono allineati i trionfi della società dei consumi sotto forma di merci, ma nella mente di Murray essi si stagliano come concentrati di un simbolismo da sottrarre alla sua indicibilità. «Questo posto ci ricarica spiritualmente, ci prepara, è un portale, un passaggio… È pieno di dati extrasensoriali»  – dice a Gladney, arrivando emblematicamente a paragonare lo spazio del supermercato al più mistico dei luoghi: «In Tibet morire è un’arte. Qui dentro noi non moriamo: compriamo cose. La differenza però è meno netta di quanto tu possa pensare». Questione cara a DeLillo, che l’avrebbe portata a una ancora maggiore evidenza in una frase di Underworld, apoditticamente sintetica della dialettica tra l’ingovernabilità di bisogni indotti e non metabolizzabili, e l’ideazione di tecnologie capaci di fronteggiarne la minaccia: «Consuma o muori. Questo è il dettato della cultura. E finisce tutto nella pattumiera».

Le prime formulazioni di quella che, fra le pagine di Underworld, sarebbe diventata una vera e propria teologia della spazzatura, sono già seminate in Rumore bianco, dove si ritrovano concentrate in una pagina che descrive Gladney intento a frugare nei rifiuti compattati, sperando di ritrovarvi l’ultimo flacone di Dylar, il farmaco che Babette assume per combattere la paura della morte: «Mi sembrava di essere un archeologo che stava per passare al vaglio un ritrovamento di frammenti di utensili e varia spazzatura cavernicola… La spazzatura è davvero qualcosa di cosí privato?… Avevo davanti il lato oscuro e sommerso della coscienza del consumatore?»

Due anni dopo l’uscita in America di Rumore bianco, Tom LeClair osservava – in un libro che avrebbe segnato una tappa importante, In the Loop: Don DeLillo and the Systems Novel – come il compattatore di rifiuti dei Gladney funzioni da «immagine autoriflessiva del romanzo e dell’America postmoderna», sostenendo che l’autore americano assegna alla spazzatura «una fonte di trascendenza».

Da una parte la ricerca della sacralità in un mondo secolarizzato, dall’altra la convinzione che la nostra realtà sia satura «di significati abbandonati»,  alimentano la tensione visionaria di DeLillo, che oscilla tra adesione al realismo e sue continue violazioni, generando immagini maestose, come quella descrittiva della nube tossica che rapidamente invade la cittadina, portando in dote fantasmi di morte: «Si muoveva nella notte in modo orribile, come una lumaca, con gli elicotteri che sembravano svolazzare senza senso intorno ai margini. Con quelle sue dimensioni spaventose, la sua oscura e voluminosissima minaccia e la sua scorta aerea, la nube dava l’idea di una campagna promozionale multimilionaria su scala nazionale che pubblicizzava la morte».

Alludendo più o meno subliminalmente a ciò che sta appena al di là delle nostre percezioni, e evocando costantemente la radiosità che si sprigiona dalla nostra vita quotidiana, la prosa di DeLillo si incarica di portare a galla elementi di una ancestrale spiritualità nascosta negli oggetti più triviali: fra i passaggi più volte celebrati di Rumore bianco, quello in cui Gladney sente emergere dal sogno di una delle figlie il nome di una marca di automobile, Toyota Celica, e la interpreta come una «affermazione bellissima e misteriosa», nella cui origine, qualunque essa sia, trova «un momento di splendida trascendenza».

Sempre disposta a evadere dal qui e ora per addentrarsi in luoghi remoti dell’immaginazione, evocando geografie vagamente allusive di antiche leggende, la scrittura elegante e visionaria di DeLillo era già stata adeguatamente restituita in Rumore bianco da Mario Biondi, nella edizione  Pironti dell’87, poi ereditata nel 1999 (con tutti gli errori di ortografia intatti) dai tascabili Einaudi, che ora ripropone il romanzo nei Supercoralli, in una nuova traduzione della pur bravissima Federica Aceto, che qui sembra essere stata guidata dall’imperativo di cambiare tutto, con il risultato di perdere la freschezza del primo impatto con la lingua di DeLillo. La prima questione è stata, presumibilmente, relativa alla scelta del tempo: passato prossimo o remoto? Biondi sceglieva il passato remoto, che – secondo Benveniste – «oggettivizza l’evento, staccandolo dal presente», mentre Aceto opta per il passato prossimo, che (è ancora Benveniste) «stabilisce un nesso tra l’evento passato e il nostro presente». La vecchia traduzione era più intonata alla enunciazione storica, mentre coerentemente alla sua impronta maggiormente colloquiale, la nuova traduzione è più pertinente alla enunciazione discorsiva, ma sposta certi vezzi del lessico corrente di un trentennio rispetto al tempo in cui il romanzo uscì, ciò che rende leggermente anacronistico e francamente meno elegante il risultato, comunque soddisfacente.