Sarà un caso, ma mentre l’estrema destra conosce nuovi exploit – l’affermazione del Rassemblement National di Marine Le Pen ha anticipato di qualche mese quello, annunciato, degli ultimi epigoni del postfascismo italiano -, Dominique Manotti fa riemergere una storia terribile, in grado da sola di mettere in discussione qualsiasi tentativo di sdoganamento, di banalizzazione delle radici intrise d’odio di questa famiglia politica.

EX SINDACALISTA, cresciuta nel Sessantotto parigino, docente di Storia economica, Manotti lo fa con il suo stile inconfondibile: quella capacità di restituire voce e dignità ai protagonisti invisibili della società francese che l’ha resa fin dalla seconda metà degli anni Novanta una delle figure di maggior rilievo del noir transalpino. Alla base del suo successo, un’avvincente miscela fatta di stile, capacità narrativa e ricostruzione di un contesto o di un’epoca.

In questo caso, la nuova indagine – la sesta – del commissario della polizia giudiziaria Théo Daquin, il personaggio con cui la scrittrice debuttò nel 1995 con Il sentiero della speranza (riproposto da Sellerio nel 2016), definisce fin dal titolo il «dove» e il «quando» della vicenda. Marsiglia ’73 (Sellerio, pp. 400, euro 15, traduzione di Francesco Bruno) non ci riporta solo indietro nella biografia di Daquin, che al suo esordio guidava nel 1980 una squadra di sbirri dai metodi non proprio ortodossi nel X Arrondissement di Parigi, ma nel pieno del cuore di tenebra della recente memoria francese, in un groviglio di violenza, interessi e razzismo cresciuti all’ombra di una stagione coloniale recentemente conclusa e in grado ancora di scaldare gli animi e alimentare il risentimento come benzina gettata sul fuoco.

Perché la Marsiglia del romanzo è in quell’annuncio di anni Settanta l’epicentro di una vera campagna di terrore costellata di aggressioni e omicidi che prende di mira soprattutto gli immigrati algerini. Una stagione che il giornalista Fausto Giudice nel suo celebre Arabicides. Une chronique française (La Découverte, 1992), una cronaca minuziosa di trent’anni di assassinii razzisti, aveva ribattezzato come «incubi al sole»: mesi di agguati e veri e propri «pogrom» che avevano visto i neofascisti, il Front National di papà Le Pen aveva appena preso il posto di Ordre Nouveau sciolto dagli Interni, sfruttare il clima di incertezza frutto della decisione governativa di rendere «illegali» gli stranieri che erano già presenti, spesso da decenni, nel Paese.

ATTRAVERSO LO SGUARDO di Daquin, detective omosessuale, colto, allergico al potere e alle gerarchie, appassionato di rugby e di jazz, che qui incontriamo 27enne alle prime armi e in forza alla brigata criminale del Vescovado, la locale centrale di polizia, Dominique Manotti racconta una città dove si stanno regolando conti dai quali dipendono le sorti dell’intera democrazia francese. E, in questo caso, le forze dell’ordine non sono solo in azione per indagare sulla morte di Malek Khider, 16enne nato da genitori algerini, ma incarnano allo stesso tempo anche «la scena del crimine».

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Tra gli agenti non pochi hanno già prestato servizio ad Algeri prima dell’indipendenza del Paese nordafricano da Parigi, altri hanno guardato con simpatia al terrorismo dell’Oas che quella separazione cercava di impedire con il plastico; il tutto, mentre in città arrivavano quasi centomila pieds-noirs in fuga dall’altra sponda del Mediterraneo. Nel 1973, chiuso il capitolo delle colonie si è già aperto quello dell’immigrazione e lo slogan della préférence nationale ha fatto la sua comparsa.

DAQUIN COMPRENDE che ciò sta accadendo intorno a lui è solo l’annuncio di una minaccia ancora più grande, che il razzismo cela anche altri interessi e segreti che vedono spesso i suoi colleghi nella parte dei complici. «Cacciatori e cacciati vivono insieme in buona armonia, in simbiosi, e in un’opacità che gli uni e gli altri coltivano con cura. Ho imparato, non dimenticherò», promette a se stesso come ai lettori il commissario prima di impegnarsi a fondo per scoprire chi abbia ucciso il giovane Malek.